
TRAMA
Una scienziata marconista fissata con la comunicazione extraterrestre, proprio quando tutti intorno a lei sono diventati scettici, riceve un messaggio alieno da Vega.
RECENSIONI
Tratto dal best seller (1985) dell'astronomo Carl Sagan, morto proprio ad inizio riprese, più che un film di fantascienza è una dissertazione filosofica, da New Age, su di un viaggio alla scoperta di se stessi, comparando Religione e Scienza come strumenti di ricerca della Verità, atti a colmare i vuoti interiori dell'uomo del ventesimo secolo. Dove l'evidenza non c'è, solo la fede può guidare chi crede, in Dio come negli alieni. È il volto confessionale de L'Arrivo di David Twohy, dell’anno prima: possiede una materia intrigante che si fa ancora più ambiziosa nel suo finale circolare con ritorno “cosmico”, votato alla scoperta dell'Io umano più che del mostro extraterrestre. Zemeckis non è però Kubrick, tanto meno possiede il talento di Spielberg nel creare il pathos dell'attesa come in Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo. Allunga e rende troppo liriche e malinconiche le sequenze (memore del suo Forrest Gump), con banali passaggi edificanti. Felici il sarcasmo su pregiudizi e su fanatismo terrestri (l’eccentrica “Woodstock” che nasce spontanea dopo il “contatto”), e il parallelo fra capacità di sognare e caparbietà della scienza, sconfitta dai suoi stessi metodi empirici nel momento in cui si trova di fronte all'ignoto improbabile. Se la parte finale in sé è intrigante, con ritorno "cosmico" e circolare al prologo, fra sogno e realtà, sull'ambiziosa (e rovinosa) falsariga di 2001: Odissea nello Spazio, l'epilogo in senso stretto è del tutto inutile, fra parafrasi delle diciotto ore trascorse e moralismo per bambini di tutte le età. Grande il personaggio interpretato da John Hurt, ricorda i bizzarri villain di 007. Comparsate di Larry King, Jay Leno e di un Bill Clinton, forrestgumpianamente ri-maneggiato per l’interazione.
