TRAMA
Lucien Cordier è il capo della polizia di Bourkassa, minuscolo centro (1275 abitanti) dell’Africa Occidentale Francese. Deriso e umiliato dai magnaccia del paese, si reca in treno dal collega Chavasson per chiedergli un consiglio su come risolvere la faccenda. Consiglio che segue tremendamente alla lettera…
RECENSIONI
Inizio a guardare Colpo di spugna e non ci capisco un cazzo. Non riesco a capire se è un bel film, una schifezza, uno sferzante pamphlet girato in punta di cinepresa o una vaccata di rara nefandezza. Non è finita: non riesco neanche ad afferrare la posizione morale di Tavernier nei confronti del suo protagonista. Ci si mettono pure le strampalatissime musiche di Philippe Sarde e i destabilizzanti movimenti della steadycam da 30 kg. indossata da Pierre-William Glenn a confondermi le idee. Risultato: un film che più va avanti e più mi disorienta. Inizio a esultare scompostamente. E mi accorgo che la spirale di follia in cui è precipitato Lucien Cordier (Philippe Noiret, l’“attore biografico” di Tavernier) è la stessa in cui sono precipitato anch’io senza avvedermene (e nonostante abbia letto il romanzo di Jim Thompson da cui il film è tratto). Come diavolo è riuscito a spiazzarmi tanto questo film? Non soltanto per i suddetti motivi, suppongo, o per le stralunate interpretazioni di un cast d’eccezione (cfr. scheda tecnica) che gioca fuori casa e fuori ruolo (Noiret ad esempio era spaventato da quanto fosse lontano da lui il personaggio che doveva interpretare); non soltanto per l’ambientazione decisamente straniante (l’Africa Occidentale Francese del 1938) o per il taglio ferocemente politico dell’intreccio (quanto razzismo e quanta intolleranza gronda dalle situazioni e dai dialoghi!), ma anche, e forse soprattutto, per un’idea di messa in scena di una semplicità micidiale. Man mano che la vicenda assume toni sempre più grotteschi e deliranti, le inquadrature (fino ad allora sistematicamente occupate da persone intente a fare qualcosa di concreto come mangiare, rassettare, giocare a biliardo, sbucciare un frutto e così via) si svuotano progressivamente di azioni e si riempiono proporzionalmente di persone che dialogano in spazi circoscritti e statici - una stretta veranda, sotto un albero, un piccolo salotto, un’angusta camera da letto – nei quali ci si interroga sul senso degli eventi, fino a raggiungere una disperata, volteggiante ammissione: “Non ha nessuna importanza perché, in ogni caso, sono già morto da tanto tempo”. Ohibò!
