Mélo, Sala

COLD WAR

TRAMA

Cold War è un’appassionata storia d’amore tra un uomo e una donna che si incontrano nella Polonia del dopoguerra ridotta in macerie. Provenendo da ambienti diversi e avendo temperamenti opposti, il loro rapporto è complicato, eppure sono fatalmente destinati ad appartenersi. Negli anni ’50, durante la Guerra Fredda, in Polonia, a Berlino, in Yugoslavia e a Parigi, la coppia si separa più volte per ragioni politiche, per difetti caratteriali o solo per sfortunate coincidenze: una storia d’amore impossibile in un’epoca difficile (dal pressbook).

RECENSIONI

Prima di affrontare direttamente Cold War, premio per la miglior regia a Cannes 71, prendiamo in considerazione il cinema di Paweł Pawlikowski, oggetto apparentemente inclassificabile e dai connotati straordinariamente mutevoli. A prima vista, infatti, si tratta di un cinema senza baricentro o fissa dimora, continuamente cangiante e privo di un’identità riconoscibile: quali potrebbero essere gli elementi di continuità tra i lavori degli esordi From Moscow to Pietushki: A Journey with Benedict Yerofeyev (1990), Dostoevsky's Travels (1991), Serbian Epics (1992) e Tripping with Zhirinovsky (1994), docudrama caratterizzati da un realismo così accentuato da degenerare in grottesco, e l’estetica millimetrata dei suoi ultimi due film in bianco e nero Ida (2013) e, ovviamente, Cold War? Cosa collega il verismo britannico in odore di Alan Clarke di Twockers (1998) e Last Resort (2000) allo stile strettamente legato alle sensazioni e alle visioni dei protagonisti di My Summer of Love (2004) e La femme du Vème (2011)? Niente, sembrerebbe la risposta adeguata. Ed è proprio questo niente che occorre interrogare.

Nato in Polonia nel 1957, Pawlikowski ha vissuto in Germania, Italia, Gran Bretagna e Francia prima di tornare a Varsavia e insediarsi in un appartamento a poche strade dall’abitazione d’infanzia. Non si tratta di dettagli biografici di poco conto, poiché il suo stesso cinema ha finito per assimilare e riprodurre questa vocazione al nomadismo, al movimento incessante. Il niente di cui parlavo prima consiste esattamente nel carattere proteiforme di questo cinema ossessionato dal demone del movimento, del passaggio, del transito. Un’ossessione che si concretizza in modo fin troppo evidente nell’idea del viaggio che monopolizza letteralmente i primi titoli della sua filmografia: From Moscow to Pietushki: A Journey with Benedict Yerofeyev, per esempio, non è soltanto un viaggio metaforico nell’universo dello scrittore russo dedito a pratiche di alcolismo estremo (intrugli a base di profumi, deodoranti e vodka), ma anche un vero e proprio tragitto tra due stazioni ferroviarie insieme ai compagni di bevute del poeta marginale e maudit (non è dunque fortuito che From Moscow to Pietushki, ispirato al “poema ferroviario” dallo stesso titolo di Erofeev, si apra nella stazione moscovita di Kursk).

From Moscow to Pietushki (1990)

La medesima ossessione itinerante, stavolta associata all’unico discendente in vita di Fëdor Dostoevskij, si riaffaccia triplicata in Dostoevsky's Travels: qui seguiamo il pronipote dello scrittore, in realtà un conduttore di tram di San Pietroburgo, in una surreale tournée letteraria nell’Europa occidentale sulle tracce dell’illustre antenato. Il fatto è che l’unico obiettivo del ferrotranviere, supposto e stimato letterato malgré soi, consiste nel guadagnare i soldi necessari a comprare una Mercedes con cui rientrare orgogliosamente a casa e suscitare ammirata invidia.

Dostoevsky's Travels (1991)

Un conduttore di tram, un viaggio destinato a riprodurre esattamente quello compiuto più di un secolo prima dal celeberrimo avo, un patetico desiderio automobilistico di lusso: è possibile immaginare qualcosa di più grottescamente itinerante di questo delirio? Sì, la crociera farneticante di Tripping with Zhirinovsky, una campagna elettorale a tappe lungo il Volga con l’ultranazionalista e xenofobo Vladimir Zhirinovsky, personaggio semplicemente caricaturale senza bisogno di caricature. Il leader del Partito Liberal-Democratico approda pomposamente ogni giorno in una nuova località fluviale, tenendo discorsi non troppo dissimili da vaniloqui inneggianti a una Nuova, Grande Russia. E noi, viaggiando con lui sulla sua assurda imbarcazione, cogliamo un intero florilegio di situazioni ufficiali e cerimonie pubbliche immancabilmente sgretolate dal comico involontario.

Tripping with Zhirinovsky (1994)

Se Serbian Epics è un altro viaggio surreale-grottesco nella Bosnia del 1992 in compagnia dell’ennesimo ultranazionalista megalomane (Radovan Karadžić, ma a un certo punto sbuca persino Limonov), in The Stringer (1998), il titolo più invisibile della filmografia pawlikowskiana, assistiamo per la prima volta al trasferimento del realismo d’impronta documentaristica nei territori della finzione: protagonista è un aspirante videogiornalista d’assalto che, in cerca di riprese da vendere ai canali televisivi, ciondola per Mosca con la sua videocamera. L’incontro con un politico non troppo dissimile da Zhirinovsky, di cui diventa in fretta il videoperatore personale, completa il quadro, per giunta complicato da una relazione sentimentale con la responsabile di un’emittente internazionale.

The Stringer (1998)

È proprio in questo primo lungometraggio di finzione, vero e proprio scheletro nell’armadio presentato a Cannes e immediatamente caduto nell’oblio, che il cinema di Pawlikowski si imbatte nelle enormi difficoltà dovute all’innesto dell’estetica guerrilla-style su un canovaccio narrativo convenzionale (giovane sognatore si scontra con le durezze e gli inganni della realtà).  Ciononostante, in questo frangente si precisa l’interesse per figure che rispecchino l’idea cardine del passaggio anche dal punto di vista anagrafico: giovani o adolescenti che d’ora in poi popoleranno il suo cinema.

Twockers (1998)

Come quelli di Twockers, titolo che ricalca l’acronimo TWOC (Taking Without Owner's Consent) utilizzato nel gergo poliziesco per designare il furto d’auto, e come quello di Last Resort, ragazzino russo catapultato in territorio britannico insieme alla madre ansiosa (e illusa) di ricongiungersi col fidanzato inglese. Già, perché è in questa zona grigia tra infanzia e maturità che si produce un continuo slittamento da un sistema di valori all’altro, tra una stagione dell’esistenza e l’altra.

Last Resort (2000)

E l’estate delle scoperte amorose è quella che fiorisce e sfiorisce in My Summer of Love, film in cui Pawlikowski trasfigura il “realismo BBC Films” degli esordi in un impressionismo spigoloso talvolta reminiscente del primissimo Bruno Dumont (L’età inquieta citato quasi alla lettera all’inizio del film e L’umanità nella concezione dei rapporti tra personaggi e ambiente), talaltra incline alla sensorialità esasperata che proprio in quegli anni caratterizzava in Francia quello che Martine Beugnet ha definito “cinema della sensazione”.

My Summer of Love (2004)

Impronta, quest’ultima, che esplode nel film più affascinante del cineasta polacco, La femme du Vème, nel quale il regime del realismo si sgretola progressivamente fino a essere risucchiato nella spirale allucinatoria del protagonista Ethan Hawke.

La femme du Vème (2011)

È fin troppo chiaro che, dopo il film-delirio La femme du Vème, il cinema di Pawlikowski debba spingersi ancora più in là nella trasfigurazione del dato reale. Ecco allora Ida, lungometraggio in stile ascetico consacrato all’estetica trascendentale fatta di quotidianità, scissione e stasi secondo il protocollo individuato da Paul Schrader nel 1972 nel saggio epocale Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer. Anna/Ida, una giovane sul punto di prendere i voti, è costretta a confrontarsi con gli orrori e le seduzioni della vita mondana e laica: suo contraltare è la zia dissoluta Wanda, giudice dalla carriera sanguinaria attualmente dedita all’alcol e agli amori occasionali. In un bianco e nero giansenista e con un formato del quadro classico (Academy Format o Ratio), Ida oggettiva ancora una volta l’idea di cinema-viaggio tanto cara a Pawlikowski. Stavolta allo spostamento fisico dal convento alla città si accompagna un altro trasferimento dalla città ai luoghi rurali d’infanzia di Anna e, soprattutto, un viaggio nel passato di antisemitismo e morte. L’orrore della verità sepolta si arricchisce infine di striature sentimentali ed erotiche grazie all’incontro con un giovane sassofonista conosciuto strada facendo. Viaggio al cubo, dunque: ciò che conta non è tanto il punto di arrivo, destinato a un continuo rilancio (si veda il finale del film), quanto piuttosto il movimento che costringe alla messa in discussione dei valori rispettati fino a quel momento.

Ida (2013)

Col sesto lungometraggio di Pawlikowski si assiste infine, per la prima volta nel suo cinema, alla rappresentazione concreta di un viaggio di ampie proporzioni nel tempo e nello spazio: dalla Polonia del 1949 a quella del 1964, passando per Germania (Berlino Est), Francia (Parigi), Jugoslavia (Spalato) e di nuovo Francia (ancora Parigi). Dedicato e ispirato a grandi linee ai genitori del regista, i cui nomi sono quelli dei protagonisti Wiktor e Zula, Cold War allarga dunque a dismisura il compasso narrativo e spettacolare del suo cinema, potenziando l’ossessione del movimento e del cambiamento sia in termini quantitativi (location multiple, alto numero di attori e comparse, svariate lingue, performance musicali di diversa genere) che in termini qualitativi (tra il 1949 dell’inizio e il 1964 della fine è l’intero mondo a trasformarsi, non escluso quello privato che contraddistingue la tormentata storia d’amore tra i due protagonisti). E anche se l’impronta potrebbe sembrare una reiterazione di quella osservata in Ida, basta prestare un po’ di attenzione all’arrangiamento stilistico per rendersi conto che le formule cinematografiche frequentate nel film precedente vengono piegate in tutt’altra direzione: lungi dal costituire un partito preso di marca ascetica, in questo caso il bianco e nero rappresenta soltanto un accorgimento mimetico volto a restituire il sapore degli anni evocati e il formato classico un semplice escamotage per ridurre i costi di produzione (PP: "l'Academy format aiuta anche quando non hai a disposizione un budget troppo elevato per le scenografie, perché non sei costretto a mostrare troppo del mondo circostante").

E, soprattutto, se Ida aboliva quasi del tutto i movimenti di macchina, affermando in questo modo la supremazia dell’inquadratura statica, Cold War, al contrario, è un film in cui la cinepresa si muove frequentemente per accrescere la temperatura emotiva delle situazioni rappresentate (si veda, giusto a titolo di esempio, l’esibizione musicale parigina, durante la quale un vellutato movimento di macchina ruota attorno a Zula avvolgendola in uno struggente abbraccio visivo).

Ed è proprio negli episodi ambientati in Francia che questo dinamismo raggiunge una disinvoltura tale da ricordare le passeggiate sentimentali di Philippe Garrel, coi due amanti che camminano per le strade parigine filmati con un carrello a precedere che ne asseconda sornionamente il movimento.

Ma sono molti i fantasmi cinematografici che s’intrufolano nei fotogrammi di Cold War: da Andrzej Wajda (del resto Cenere e diamanti è un po’ il testo sacro di Pawlikowski) ad Andrej Tarkovskij (Nostalghia), passando per Béla Tarr (specialmente il prologo) e la Nouvelle Vague (Parigi vista dalla Senna). Eppure, al netto di questo armamentario accademicamente derivativo, l’aspetto più interessante del film resta il tentativo - solo parzialmente riuscito - di far confluire un’estetica sorvegliata nelle forme possenti ed eccessive di un mélo d’epoca. Cambiare pelle e pellicola, insomma, sembra davvero la principale preoccupazione del cineasta polacco, ossessivamente impegnato a esorcizzare lo spettro della ripetizione.

Cold war non inizia forse con un furgoncino che viaggia nella campagna polacca in cerca di testimonianze musicali della tradizione per concludersi coi due protagonisti che escono dall’inquadratura, lasciando un campo vuoto su quella stessa campagna? I film di Pawlikowski sono luoghi di passaggio.