
TRAMA
Ruby ha 17 anni ed è l’unica persona udente nella sua famiglia. La ragazza sogna un futuro nel canto, ma allo stesso tempo sente la responsabilità di prendersi cura dei suoi cari.
RECENSIONI
Ci sono film che si pongono come obiettivo quello di fare stare bene. CODA è uno di questi. La ricetta può sembrare semplice, ma non lo è affatto, occorre toccare le corde giuste, trovare quel prezioso equilibrio in grado di bilanciare lacrime e sorrisi, armonizzare pieni e vuoti, dando spazio ai sentimenti senza scadere nel sentimentalismo. Non è la trama l’elemento di forza del film, abbiamo già visto decine di percorsi di formazione dove un giovane personaggio alla ricerca di una propria identità coltiva un talento inaspettato, trova qualcuno che lo supporta, deve fronteggiare la famiglia che si pone come un ostacolo alla realizzazione del sogno e finalmente prende il volo. L’elemento che lo distingue è il fatto che i membri della famiglia in cui vive la protagonista sono sordi. Ruby è l’unica udente, il suo fungere da tramite tra il mondo esterno e la famiglia attraverso il linguaggio dei segni è fondamentale nel quotidiano, sia nelle piccole cose che nelle trattative di lavoro, e la sua assenza causerebbe difficoltà oggettive. Ruby, però, entra nel coro della scuola per seguire il ragazzo che le piace, acquisisce consapevolezza del suo talento per il canto e trova l’appoggio di un professore che la spinge a osare di più. Riuscirà a distaccarsi da un nucleo familiare che ama ma che vive sempre più come una gabbia? La famiglia capirà le sue motivazioni o si sentirà tradita? Se la storia, anche nella declinazione alla sordità, non sembra nuova è perché non lo è affatto. CODA è infatti il remake di La famiglia Bélier, grande successo d’oltralpe del 2014, con la costa americana che prende il posto della campagna francese e, soprattutto, attori realmente sordi invece di attori che fanno i sordi, aspetto che determinò aspre critiche da parte della comunità sorda all’originale francese.
La differenza c’è e si capta nella genuinità del risultato, in grado di raccontare la stessa storia di sempre, e un film già visto, in modo onesto e autentico. Sian Heder è abile soprattutto nel contestualizzare con credibilità la vicenda, ma non osa granché sul piano formale, del resto non ne ha bisogno perché la sceneggiatura, sempre della regista e premiata con l’Oscar, è molto oliata e consente di dosare svolte narrative e caratterizzazioni dei personaggi con la giusta misura. Non mancano momenti toccanti, che funzionano perché ci si arriva con il giusto crescendo, dal concerto scolastico vissuto dal punto di vista del pubblico sordo, al padre che ascolta il canto della figlia attraverso il contatto fisico, toccandole il collo, in modo da poterla “sentire” nelle vibrazioni che produce. Nel cast di distingue la giovane Emilia Jones, abile nel canto e nel donare al personaggio una ordinarietà che spesso manca in questo genere di personaggi, ma è Troy Kotsur nel ruolo del padre, premiato con l’Oscar come non protagonista, a rubare spesso la scena con la sua umanità. Nella parte della madre fa piacere ritrovare Marlee Matlin, prima attrice sorda a essere riuscita nell’impresa di vincere un Oscar nel 1987 con Figli di un dio minore. Il film non è inizialmente uscito nelle sale cinematografiche italiane ma è arrivato direttamente in home video e streaming, mentre negli U.S.A. lo ha distribuito Apple tramite la sua piattaforma. Solo i tre Oscar conquistati lo hanno portato nei cinema. Quello come migliore film dell’anno, invero molto generoso, lo carica di responsabilità e aspettative che rischiano di inficiarne la visione e di farlo giudicare per ciò che rappresenta e non per ciò che è: un film medio, ma non mediocre, che punta a fare stare bene. E ci riesce.
