Animazione, Commedia, Fantasy

COCO

Titolo OriginaleCoco
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2017
Durata109'

TRAMA

Messico, día de los muertos. Il dodicenne Miguel è un aspirante mariachi e ultimo discendente dei Rivera, calzolai profondamente avversi alla musica da quando un loro antenato ha abbandonato moglie e figlia per suonare in giro per il mondo. Maledetto per aver rubato una chitarra dal mausoleo di Ernesto de la Cruz, star nazionale e suo presunto trisavolo, Miguel viene magicamente trasportato nel mondo dei morti dove incontra i suoi cari defunti, della cui benedizione ha bisogno per tornare a casa. Ma una condizione è (im)posta: rinunciare per sempre al suo sogno…

RECENSIONI

La Pixar è sempre stata brava a giocare coi Sentimenti (letteralmente, si pensi a Inside Out), a coglierne le sfumature e le contraddizioni in modo inaspettato, a dispensare morali, sempre positive, mai totalmente accomodanti (si pensi al finale di Monsters University). Il tutto attraverso un medium che molti considerano puro intrattenimento, veicolo di lezioncine infantili, babysitter homevideo. In Coco il discorso si fa ancora più convoluto in se stesso, i confini tra le emozioni si rivelano più labili, le loro incoerenze più evidenti, gravitanti attorno ai due poli del film: amore e ricordo (e con essi i loro opposti, rancore e oblio). Al centro c'è la famiglia, fonte di affetto, divisa in due mondi, unita dalla memoria. Se Orfeo (o Hercules per restare in casa Disney) scendeva nell'Ade alla ricerca del suo amore, a Miguel esso serve per uscirne; ma al prezzo del suo sogno – in realtà un altro tipo di amore, quello per la musica- il motivo per cui ci si è ritrovato. Il sacrificio richiesto non è da intendersi come una punizione ma come una forma di protezione, una misura cautelare secondo l'erronea assunzione che genitori e parenti sappiano con certezza cosa sia giusto o sbagliato per figli e nipoti in virtù della loro supposta maggior esperienza: la musica ha portato solo disgrazie ai Rivera, meglio entrare nel family business e diventare calzolai. Ed ecco che l'abuelita di Miguel, risoluta matriarca, legata da un enorme affetto verso il ragazzino, gli distrugge la chitarra, innescando involontariamente tutta la vicenda (idem per re Tritone che incenerisce la statua di Eric ne la Sirenetta o la madre di Merida che le brucia l'arco in Ribelle). Una famiglia che sa anche essere vendicativa verso sé stessa, che perseguita coloro che la rinnegano: la trisavola Imelda, a causa della sua sfortuna, ha perpetuato in tutta la sua discendenza diffidenza verso la musica e il marito fedifrago, la cui foto non viene esposta nelle ofrendas di famiglia, condannandolo ad una damnatio memoriae, anticamera dell'oblio. Sul palco, in una scena magistralmente diretta e coreografata, Imelda canta La Llorona, grido di un cuore spezzato, quello di un demone del folklore messicano (la llorona appunto), fantasma di una donna che, secondo alcune versioni della leggenda, piange i figli da lei stessa annegati dopo l'abbandono da parte del proprio amato. Ma quello di Coco è un odi et amo al servizio di una fiaba a lieto fine dove il perdono è concesso, il ricongiungimento raggiunto, le divergenze appianate; l'amore trionfa sul dolore sbocciato da quello stesso amore, che lega aldiqua e aldilà attraverso il ricordo (tema presente anche in Kubo e la Spada Magica della Laika).

Un oltretomba molto concreto, colorato e gioioso (riflesso di una concezione della morte tutt'altro che macabra tipica della cultura messicana) fatto di ossa e tessuto, la cui essenza eterea è simbolicamente rappresentata dai ponti di petali di calendula, attraversabili dai morti solo nel día de los muertos e solo se una loro immagine è stata esposta nelle ofrendas di famiglia. Ma gli scheletri danzavano già nella Silly Simphony disneyana The Skeleton Dance (1929) e cantavano già nella Sposa Cadavere (2005) di Tim Burton in un aldilà anche in quel caso festoso e “vivace” ma pur sempre melanconico, con una prevalenza dei verdi e dei viola laddove in Coco splendono il più brillante indaco e l'arancio. Molto più simile cromaticamente è il regno dei morti di The Book of Life (2014), dal setting anch'esso messicano ma, a conti fatti, molto più banale e non così ben rappresentativo dei costumi da cui trae ispirazione. Perchè è nota la meticolosa cura con cui la Pixar dipinge i suoi sottomondi, frutto di approfondite ricerche sul campo (retaggio disneyano), “razzie” culturali tanto fedeli quanto poi perfettamente reinterpretate per permettere una migliore fruizione da parte del pubblico occidentale. Operazione vinta su tutti i fronti, capace di conquistare addirittura sia i messicani, diffidenti verso gli yankee “conquistadores”, che i cinesi (in entrambi i mercati il film ha raggiunto successi senza precedenti). Nel film sfilano quindi calaveras e alebrije, coloratissime creature oniriche della recente tradizione popolare messicana (si fanno risalire all'inizio del ventesimo secolo) non direttamente legate all'aldilà, ma che in Coco – licenza poetica - assumono il ruolo di guide spirituali, tramite tra i vivi e i morti, ruolo che, nella mitologia Azteca, è affidato ai cani xolo (o cani nudi messicani), rappresentati nel film da Dante (omaggio a chi l'aldilà lo ha attraversato in lungo e in largo), che accompagna e veglia su Miguel durante il suo viaggio. E con questo personaggio la Pixar si scatena in uno stile d'animazione estremo, cartoon, che contrasta col naturalismo che da sempre la contraddistingue, ammirabile nell'acting di tutti gli altri personaggi del film.
L'espediente finale ricorda molto Cenerentola («ma vedete, io ho l'altra scarpetta», recitava la principessa), e i colpi di scena si susseguono, più o meno inattesi; il twist del “cattivo a sorpresa” è oramai pratica piuttosto abusata non solo in molti Pixar, ma anche in tutti i recenti Disney, segno che ormai, anche il confine tra i due studi sfuma sempre più. Ne è un esempio anche il ricorso alle numerose canzoni interpretate dai personaggi (che è valso a Coco l'erronea etichetta di musical; in realtà è un film che parla di musica attraverso il canto), prassi comune a molti cartoon Disney, estranea ai Pixar se si esclude Ribelle, dove però esse hanno funzione extra-diegetica. Spicca fra tutte “Ricordami” dei coniugi Lopez, autori dell'immenso successo di “Let it go” di Frozen, abili compositori e sottili parolieri, spesso banalizzati negli adattamenti nostrani. La ninna-nanna non veicola semplicemente il ricordo - essenziale per lo scioglimento finale - ma è la richiesta di perdono da parte di un padre che deve partire, con la promessa di tornare, senza abbandonare (come dimostrano anche le numerose lettere inviate a sua figlia). Perchè è l'oblio la vera Morte, quella che dissolve per sempre i non più vivi e gli amici immaginari (Bing Bong in Inside Out). E' rincuorante allora pensare che i grandi della Storia restino immortali, perchè ci sarà sempre qualcuno che ricorderà le loro imprese/opere. Ma se si trascende l'effimerità della razza umana e si ragiona secondo un'ottica millenaria, quella del Pianeta Terra, la prospettiva cambia. L'oblio, come si dice en passant nel film, è il destino che «prima o poi tocca a tutti». Ancora un'altra piccola sfumatura di questo grande affresco di Sentimenti.

Frozen - Le avventure di Olaf

Il film è preceduto dal mediometraggio con protagonista il simpatico pupazzo di neve Olaf, amante dei caldi abbracci. Concepito come special di Natale (è infatti andato in onda sulla ABC, di proprietà sempre della Disney) è in apparenza un' altra occasione per sfruttare l'irripetibile successo di Frozen, dopo il corto Frozen Fever, in attesa di Frozen 2. Quella degli special di Natale (come quelli di Halloween) è una vera tradizione americana, riproposti ogni anno in tv dove, nonostante gli anni, non cessano di essere evergreen - si pensi A Charlie Brown Christmas (1965), How the Grinch Stole the Christmas (1966), tra i tanti-. E di tradizioni si parla in questo nuovo episodio della saga di Elsa e Anna, che si rendono conto di aver perso le loro usanze natalizie da quanto i genitori hanno chiuso le porte del palazzo per proteggere Elsa dai suoi poteri. Olaf si offre di trovarne di nuove grazie all'aiuto degli abitanti del regno di Arendelle. È interessante notare come una major così attenta alla sua immagine e ossequiosa del suo passato sia sempre così al passo coi tempi, capace di reinventarsi per potersi riaffermare («tutto deve cambiare perché tutto resti come prima» scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa), arrivando addirittura a professare l'invito, quasi ossimorico, a trovare nuove tradizioni, senza però soppiantare le antiche. Basti anche vedere come sono cambiate le figure femminili, come le principesse hanno sempre meno bisogno di essere salvate: le star del film sono sempre le due sorelle, sempre più emancipate; Christoph, come in Frozen, continua ad essere semplicemente il “principe” funzionale alla storia. Del resto, chi si ricorda del principe di Biancaneve o di Cenerentola?