Drammatico, Recensione, Sala

CLOSE

Titolo OriginaleClose
NazioneBelgio, Olanda, Francia
Anno Produzione2022
Durata105'
Scenografia

TRAMA

Léo e Rémy, 13 anni, sono sempre stati amici, fino a quando un evento impensabile li separa…

RECENSIONI

In un panel al TED di qualche anno fa, l'educatore e scrittore britannico Ken Robinson espose, con toni ilari e coinvolgenti, un argomento tutt'altro che scontato. Secondo Robinson la scuola può soffocare la creatività insita in ognuno di noi e, di fatto, questo è ciò che si può esperire nella prassi quotidiana, per esempio notando come le materie artistiche siano poste all'ultimo gradino della scala gerarchica delle discipline curriculari.
Il già docente all'Università di Warwick partiva da alcuni presupposti: l'evidenza della creatività umana, varia e multiforme, la consapevolezza che l'educazione è un tema centrale, l'idea che i bambini abbiano, per natura, si potrebbe dire, ovvero a monte rispetto a condizionamenti e sovrastrutture successivi, la capacità di innovare.
Robinson riteneva che quest'ultimo punto in particolare (nel suo esempio si riferisce a un bambino in età prescolare, quindi decisamente più piccolo dei protagonisti di Close) possa essere spiegato, riferendosi al concetto di errore. Il bambino, a meno che non sia condizionato a pensare/pensarsi diversamente, non ha paura di sbagliare e ciò gli consente di esprimere in modo libero la propria creatività, di produrre contenuti originali. Chiariva poi che non ogni sbaglio è creativo, ma che, senza un'adeguata gestione della possibilità di commettere errori, il terrore di sbagliare castrerà qualunque velleità creativa. Con riferimento a una celebre massima di Pablo Picasso («tutti i bambini sono degli artisti nati; il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi»), Robinson riteneva quindi che non esistesse a priori una dis-artisticità, per così dire, ma che si potesse disimparare a essere un... e se sostituissimo il termine artista, troppo connotato, a livello culturale, con una specie di neologismo bruttarello, ma forse efficace, come creattore? Si tratterebbe di capire cosa si può fare, in concreto, per rimanere quanto più possibile attori creativi della propria esistenza, nel tentativo, non di sganciarsi dal sistema ineliminabile dei rapporti con l’altro (l’altro come adulto, l’altro come educatore, l’altro come coetaneo), ma anzi valorizzando l’alterità, anch’essa ineliminabile, del proprio sentire autentico; io sono l’altro e l’altro sono io, seguendo il ragionamento di Giacomo Rizzolatti, colui che per primo, negli anni Novanta, rilevò la presenza dei cosiddetti neuroni specchio: «[…] partendo da un approccio etologico, senza convinzioni a priori sulla funzione delle aree motorie, abbiamo scoperto che molti neuroni del sistema motorio rispondono a stimoli visivi. Se vedo una persona che afferra una bottiglia, colgo subito il suo gesto perché è già neurologicamente programmata in me la maniera in cui afferrarla. Si verifica una comprensione istantanea dell'altro, senza bisogno di mettere in gioco processi cognitivi superiori.»
D’altra parte in uno dei dialoghi di Lara, la protagonista di Girl, con lo psicoterapeuta, è questo il concetto che dovrebbe (ma ci riesce davvero?) rassicurare la ragazza rispetto al dilemma dell’altrui percezione che infine forgia la propria, di essere umano sociale: «tu sei già tutto quello che diventerai.»
Lara è ciò che è, come Léo, come Rémi, di pochi anni più giovani, ma già affacciati sull’età in cui il conflitto si conforma alla richiesta del mondo esterno: limitare la creatività, anche la creatività affettiva (il disegno brutto e buffo, il racconto, mai terminato, dell’anatroccolo e della lucertola), relegare il gioco al momento della competizione coi propri simili; Léo, che non riesce più a seguire l’amico in un vecchio copione di agguati al forte, comincia a frequentare lezioni di hockey; diventa perciò un giocatore vero, magari addirittura un vincitore. Lo stesso Rémi, che suona l’oboe davanti all’amico, senza temerne il giudizio, sembra insoddisfatto della performance, quando deve esibirsi in pubblico.

Potrebbe sembrare una questione di lana caprina, e non è peregrino che in effetti lo sia, dato che Dhont, alla sua seconda prova registica, dopo il successo internazionale di Girl, non imbastisce in prima istanza né una critica alla struttura borghese della famiglia – qui, come là, piuttosto accogliente, comprensiva – né all’istituzione scolastica. Non siamo neppure di fronte a un saggio sulla mente adolescenziale con il quale rapportarsi, manuali di neurofisiologia o di psicologia dello sviluppo alla mano. Tanto più che studi abbastanza recenti “ridimensionano” il ruolo di questi neuroni presenti nell’area premotoria del cervello e ne contestano, opportunamente, la loro banalizzazione e la semplificazione strumentale di un concetto complesso come quello di empatia (si vedano, ad esempio, Stephanie Preston e i colleghi Melanie Ermler, Logan Bickel e Yuqing Lei, mentre qui c'è un interessante paper, a firma Sue Fletcher-Watson e Geoffrey Bird, che ragiona sul mito del deficit di empatia nell’autismo).
Tuttavia, dato che i personaggi di Dhont non fluttuano in un iperuranio scollegato dalle relazioni interpersonali (anzi), sarà opportuno riflettere sul portato di questi legami, nel momento in cui qualcosa sembra incepparsi, conducendo a esiti, in questo caso, irreparabili. Il regista costruisce un film di sussurri – di soffi, ristoratori come uno zefiro auto-generato: il tepore dentro di sé va verso l’altro – e sguardi; un film fatto di gesti piccoli e ricorrenti, tutti, o quasi, volti nella direzione dell’avanti. Léo e Rémi, i due amici inseparabili – e se c’è un affetto di diverso tipo non ci è dato sapere, perché alla fine non è quello il fulcro del discorso – corrono per i campi, sfrecciano in bicicletta. Di solito lo fanno alla stessa velocità, ma gli andamenti divergono – prima l’uno davanti, poi l’altro, poi entrambi in solitaria – quando si discostano i rispettivi intenti: Rémi, che vuole che la relazione con l’amico resti quella di sempre, Léo, che ha introiettato uno schema giudicante e conformante, che non è il suo e non è neppure, probabilmente, quello della compagna di classe, rea di aver posto la domanda da cui monta un dramma (l’articolo è indeterminativo perché in Close ci sono macro e microdrammi, tutti importanti nell’analisi complessiva): «ma voi due state insieme?»

A dodici o tredici anni l’essere e il diventare cominciano a non appartenere più a una sorta di futuro storico indefinito: sono, sarò, voglio essere, sono stato. Fino a un certo punto, tutto parla all’hic et nunc di un desiderio che non conosce – o lo conosce in modo marginale – stereotipo e pregiudizio, fino a quando, semplicemente, non ci parla più. E se l’istituzione scolastica, centro di aggregazione precipuo per un ragazzino di quell’età, sembra quasi una comprimaria, sia in Girl che in Close, è a certe dinamiche che forse occorre guardare, non per capire il gesto di Rémi (che, a giudicare dalla reazione della madre di fronte alla porta del bagno chiusa a chiave, aveva già messo in atto comportamenti autolesionistici, o ci aveva provato), ma per lenire il senso di colpa di tutti i Léo che ci potrebbe capitare di incontrare.
Lo sguardo, o la percezione di esso su di sé, in Girl, è spesso violento, ma forse è proprio a scuola che si snoda la scena più crudele, quando un docente chiede a Lara di chiudere gli occhi – lo sguardo obbligato vs lo sguardo negato – e alle compagne di classe di alzare la mano, se si sentono a disagio per il fatto che la ragazza frequenti il loro stesso spogliatoio. Con meno violenza, pure nel caso di Close, la scuola appare quale un nucleo di accoglienza non accogliente, dove ci si interroga sugli interessi e le passioni dei discenti con mero scopo didattico (nel film si alterna il francese col fiammingo), senza che da queste discussioni in lingua possa nascere un dialogo sincero, un parlarsi per ascoltar-e/si. Non va meglio nelle sedute con la psicologa scolastica, in seguito alla vicenda tragica che coinvolge Rémi: non vi è spazio per il confronto, ma solo per dei brevi monologhi, che non consolano né sanano ferite, che non aiutano a capire. Ciò che viene detto corrisponde al giusto più che al vero. È quello che i grandi vogliono sentire, ciò che si è imparato che è opportuno dare loro.
Cosa differenzia allora un adolescente involuto, certo per responsabilità non sue, da un adolescente creattore? Direi senz’altro la conservazione dell’esercizio creativo, che riesce a permanere, se esiste ascolto attivo, se esiste spazio per l’errore. Léo e Rémi mangiano solo quando giocano – la scena dello spaghetto aspirato, stropicciando l’orecchio – altrimenti sembrano sempre non avere fame, senza che qualcuno chieda mai conto di simili inappetenze reiterate oppure accontentandosi di risposte di facciata, ben poco creative e in tutta evidenza corrispondenti a un percepito-adulto “si dice A per intendere B”: «ho mal di pancia.»
E invece hanno fame – avevano fame – Léo e Rémi, una fame che Rémi non riesce a soddisfare, rimanendone sopraffatto, o qualcosa di simile, e che Léo scambia con il sudore e le botte del corpo contro una transenna (i suoi allenamenti forsennati ricordano le sedute di danza di Lara e credo che abbiano un valore filmico simile).
Solo dopo aver reso esplicito il suo tormento – nessuno glielo chiedeva e lui continuava a dire di non aver fame – Léo torna a giocare all’aggressore e all’aggredito: l’ultima volta, con Rémi, non riusciva più a farlo. La scena è intensa, assai drammatica, ma se ne coglie la portata ludica, oltre che emotivamente liberatoria, forse si comprende come il ragazzino riesca solo in quell’istante a ritornare un creattore. La madre di Rémi aveva bisogno quanto lui di quelle parole, anche se non avrebbe mai formulato un’accusa tanto irrazionale, sciocca, perché un adulto “non lo fa”.
Ho trovato esplodere – si potrebbe, a buon titolo, dire sbocciare – questo percorso nell’ultimissima sequenza di Close, cromaticamente frazionata – i fiori gialli da una parte e quelli arancio/rossi dall’altra, ma poi il vento e la prospettiva li aiutano a incrociarsi, di nuovo – come quasi complementari erano i colori di Léo e Rémi; Léo adesso può voltarsi indietro, verso quello che è stato, verso i suoi sensi di colpa e i suoi errori, anche se non sarebbe adultamente corretto definirli così, prima di tornare a guardare di fronte a sé. Léo, che adesso è, perché è stato, può finalmente diventare.
E se ci sembra che il film di Lukas Dhont giri a volte un po’ troppo su sé stesso, be’, c’est la vie.