Azione, Bellico, Drammatico, Recensione, Sala

CIVIL WAR

Titolo OriginaleCivil War
NazioneU.S.A., U.K.
Anno Produzione2024
Durata109'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

In un futuro prossimo, una guerra civile sconvolge gli Stati Uniti, divisi tra stati fedeli al Presidente degli Stati Uniti e stati secessionisti, tra cui Texas e California, alleati insieme nelle Western Forces, e Florida, a sé stante.

RECENSIONI

Provo ad andare dritto al punto. Più che un film sul valore documentale delle immagini di guerra (direi piuttosto il contrario), sulla necessità di fotografare l’orrore come strumento di possibile risveglio di una coscienza collettiva (proprio no), sullo spauracchio di un tutti contro tutti che farebbe di Civil War un’opera sulle estreme conseguenze di un dibattito pubblico sempre più polarizzato (e questo come premessa sarebbe ok, anche secondo lo stesso regista, ma anticipando che il film rifugge ogni lettura politica), l’ultima pellicola di Alex Garland mi sembra una riflessione neanche troppo velata sulla riduzione a immagine dell’Altro. Sul risultato di una continua espulsione del diverso, sulla sua stilizzazione e clonizzazione che avrebbe portato gli Stati Uniti a spaccarsi in due in una guerra civile di cui non sappiamo niente se non che ci sono due fazioni l’una contro l’altra: d’altronde, chi ha bisogno di motivazioni per una guerra se gli stessi partecipanti rifiutano ogni complessità (“qualcuno ci vuole uccidere, e noi vogliamo uccidere loro”)? Non è una novità, questa, se pensiamo che dei cloni Garland ha fatto un’ossessione, bilanciando la sua carriera dietro la macchina da presa attorno al rapporto tra copia e originale: non era Ex Machina un film sulla capacità di una figura robotica resa a nostra immagine e somiglianza di ingannarci fornendoci uno specchio falsato? Non era Annientamento un film sul corpo che si ribella a se stesso (nel tumore, nel doppelgänger che ognuno di noi si porta dietro), come avesse una propria autonomia? E ancora: non era Devs una serie tv sull’inafferrabilità di un’immagine-clone, quella di una figlia defunta, incapace di risorgere nella maniera in cui il ricordo di un padre la manteneva in vita? A ben vedere, persino il maltrattato (sigh!) Men è un film sulla riduzione a immagine dell’altro: quella di un uomo, un maschio, che diventa simulacro di tutti gli uomini, e quindi immagine oscura, proteiforme, cancerogena, orrorifica, violenta e maledetta, capace di autorigenerarsi in maniera diversa ma sempre minacciosa di fronte agli occhi di una donna terrorizzata?

Anche qui, in Civil War, gli uomini sembrano essere spariti in favore di una serie di flat character, personaggi volutamente piatti, mere funzioni, serie di attributi per occhi che hanno bisogno di definire istantaneamente chi o cosa hanno davanti, ma senza realmente prenderli in considerazione. Sono i protagonisti, e quindi sono i nostri occhi, ma siamo sicuri di voler davvero guardare attraverso questi occhi che, sostanzialmente, non vedono niente se non icone (bandierine e nulla più) prive di alcuna profondità? Scegliete il vostro paio di occhiali: quelli di una fotoreporter totalmente desensibilizzata alle immagini violente, tanto da chiedere a un uomo armato di mettersi in posa sotto due corpi impiccati, o quelli di una ragazzina che la mitizza da sempre, ma comunque capace di fotografarla dopo averla (involontariamente?) fatta morire (come eroina, tanto, sarà sostituibile col suo clone, una fotoreporter omonima di cui la stessa ragazzina ci avvisa all’inizio del film), in un progressivo ingresso nel mondo delle immagini che si dimenticano dei referenti? Siamo nel mondo-specchio, signori. Quel mondo-specchio a cui Naomi Klein ha dedicato il suo ultimo saggio Doppio. Il mio viaggio nel Mondo Specchio, quel mondo in cui “ci sono sempre una narrazione e una risposta di tipo imitativo” (ancora: “qualcuno ci vuole uccidere, e noi vogliamo uccidere loro”), un’America “dove la finzione è realtà, […] dove non sei in grado nemmeno di riconoscere te stesso”. Il saggio, non a caso, parte da una storia di doppi per trascinarci in un mondo dove l’altro è demonizzato a prescindere, dove tutto è confuso e ogni cosa è il rovescio di se stessa, il suo negativo (per restare a una bella sequenza del film). Come un militare che chiede “che tipo di americano sei?” per decidere della vita o della morte di una persona; come un giornalista che nel Presidente che muore, ucciso a sangue freddo, non vede un uomo ma la possibilità di una dichiarazione che dia senso al suo viaggio. Non c’è alcuna ideologia ma solo simboli, specchi e immagini svuotate di senso. L’estetica di una guerra in cui tutto gira attorno alle immagini di morte, alla pretesa di un’iconografia del reale, ma dove, come nel Fury di David Ayer, gli spari hanno la forma dei raggi laser di Star Wars. La guerra dei cloni, quindi? Massì, perché no?