TRAMA
Il detective Russell Poole e il giornalista Jack Jackson investigano, tra le altre cose, sugli omicidi dei rapper Notorious B.I.G. e Tupac Shakur.
RECENSIONI
Poteva essere la storia dello scontro tra due poliziotti in incognito, il bianco Frank Lyga e il nero Kevin Gaines, finita in tragedia. Poteva essere la storia di David "D-Mack" Mack, ossimoro umano in quanto sia poliziotto che rapinatore di banche. Poteva essere però anche la storia del corrottissimo poliziotto Rafe Perez, la cui confessione portò all’indagine per irregolarità di oltre 70 agenti di Polizia. Poteva quindi essere la storia dello scandalo Rampart, incentrato sulla corruzione di una specifica unità antibande della Polizia di Los Angeles. Invece il film di Brad Furman incrocia queste vicende, realmente accadute, per indagare sull’uccisione dei celebri rapper Tupac Shakur e The Notorious B.I.G, due tragici eventi avvenuti a pochi mesi di distanza che sconvolsero il mondo della cultura hip-hop della West Coast negli anni '90. Non è però nemmeno di questo che si occupa davvero il film perché l’attenzione è tutta concentrata sull’ossessione dell’investigatore Russell Poole che al caso dei due rapper, tuttora irrisolto, ha dedicato la vita sacrificando la credibilità professionale e la carriera. A complicare ulteriormente le cose ci si mettono pure due piani temporali differenti, il 1997 in flashback e il 2015. Vediamo quindi Poole a inizio carriera che si pone come obiettivo la ricerca della verità e lo ritroviamo poi, disilluso e ormai escluso dalle indagini, che continua a rimuginare sul caso coadiuvato da un giornalista (personaggio fittizio) con la chiara funzione di fargli raccontare l’intera storia allo spettatore. Nel dedalo di ipotesi, sollecitazioni, piste, volti, nomi da tenere a mente, una domanda si fa gradualmente strada: dove ci vuole portare il film?
Se lo scopo è quello di disorientarci per trasmettere il senso di impotenza di Poole nei confronti di una giustizia che non riesce a fare il suo corso l’obiettivo è parzialmente raggiunto. Parzialmente perché non ci si sa mai bene dove piazzare all’interno del puzzle, per chi parteggiare, di chi fidarsi, insomma, anche nel disorientamento non tutto pare a fuoco: l’impotenza del piccolo contro il sistema corrotto non sempre gode di adeguate motivazioni, il personaggio di Poole non ha sufficiente carisma per reggere il peso del racconto, il suo legame con il giornalista sembra nascere più da esigenze di sceneggiatura che da reale empatia, la scelta stessa di Johnny Depp come protagonista appare fuorviante. Appena lo vedi pensi all’ennesimo borderline, invecchiato con trucco e parrucco è paradossalmente più credibile, ma si fatica a ricondurlo al personaggio di uomo comune assetato di giustizia. Se il film poi ambisce anche ad altro, che sia lo spaccato sociale o la cultura musicale del periodo, fallisce invece completamente perché del quotidiano dei personaggi e della loro fatica di vivere nel contesto in cui sono inseriti al di là del caso poliziesco ci arriva poco o niente e della musica rapper si accenna qualcosa ma non la si sente praticamente mai e tale assenza finisce per avere un peso. A livello visivo pare che gli anni '90 siano diventati i nuovi anni '70, con una patina giallognola a rendere vintage il passato per contrastarlo con il presente. Randall Sullivan ha dichiarato che doveva inizialmente fare un articolo sul caso ma poi, cominciando a scrivere, si ritrovò ad avere così tanto materiale da decidere di fare un libro (dal titolo perfetto, LAbyrinth), base di partenza del film. Ecco, forse una dimensione seriale avrebbe consentito ai tanti spunti un maggior respiro. Come opera cinematografica a sé stante, invece, ha una sua coerenza stilistica ma rischia di essere dispersiva e poco intelligibile.