TRAMA
Anastasia Steele sposa Christian Grey, ma due minacce insidiano l’unione: un nemico invisibile e la sua voglia di maternità.
RECENSIONI
Che la trilogia cinematografica Cinquanta sfumature (di grigio - di nero) sia un classico film hollywoodiano è ormai assodato: fin dall’inizio dietro ai frustini si nasconde una storia d’amore tradizionale, che passa dal primo incontro all’innamoramento, fino alle peripezie da superare per stare insieme e, infine, al matrimonio. Che la sua tradizionalità sia poco nascosta anche: sempre dall’inizio, la relazione BDSM tra Christian e Anastasia è solo una copertura, come chiaramente attestato dalla scelta visiva che la risolve in stacchi di montaggio, primi piani di dettagli innocui, dissolvenze strategiche. Per questo da subito non regge il paragone con la produzione softcore né con Nove settimane e mezzo di Adrian Lyne (malgrado la citazione vivente in Kim Basinger), ma c’è di più: il rapporto Christian/Anastasia si assesta subito sulla parabola della fiaba, in particolare del film Disney, con la festa in maschera del secondo capitolo che guarda alla Bella e la Bestia piuttosto che Eyes Wide Shut. E, nomen omen, Anastasia è anche la principessa dell’omonimo film di animazione diretto nel 1997 dagli ex autori disneyani. Qui, in Cinquanta sfumature di rosso, il carattere strumentale dell’elemento bondage getta definitivamente la maschera: quei momenti sono estremamente ridotti, già (non) visti nei film precedenti, quasi non esistono, Christian sfiora il bacchettone (la sequenza del topless), si scherza perfino sull’opportunità di possedere delle manette (la scena dell’aggressione domestica), insomma la teorica provocazione è di fatto superata. È un film che si apre con un matrimonio. Ai titoli di testa la cinepresa ripassa l’abito da sposa: come riferimento dalla favola si è passati al wedding movie, ultimi esempi i recenti The Big Wedding di Justin Zackam o The Wilde Wedding di Damian Harris. Ma attenzione: al contrario di Glenn Close in quest’ultimo, Christian e Anastasia si sposano giovani, sono belli e lo fanno per scelta. È un gesto controcorrente nell’epoca dei matrimoni in calo, oggi si sposano metà degli americani adulti contro i tre quarti del 1960 e c’è un divorzio ogni 36 secondi (fonte Eurostat). Un gesto a cui segue il “problema” dei figli: se Christian vuole essere childfree, Anastasia allega alla causa nozze l’effetto della maternità; ambizione automatica, non costruita ma enunciata in modo meccanico, subito dopo la cerimonia, parodia di una desiderio secondo il luogo comune. Ma è utile per fissare uno slittamento in questo ultimo tassello della trilogia: qui è la volontà di Anastasia che conta, avere figli o risolvere una situazione, e Christian è costretto a inseguirla. L’ex stagista diviene ora motore dell’azione, centro decisionale, perché la donna è matura e l’uomo no, tanto che all’annuncio della maternità Grey fugge, si sbronza, respinge la responsabilità: e così la serie prende una sfumatura femminista.
Alla base c’è il nodo della presa in carico, dunque, e nel corpo ci sono gelosie incrociate a chiasmo (lei per un’architetta, lui per uno scrittore), cenni di inseguimento, pillole di home invasion e rapimenti: ma il racconto è perennemente scentrato rispetto al genere, sia l’action sia il giallo, concentrato com’è sulla fandom dei protagonisti, sino a prodursi in un Super cinquanta sfumature, sequenza finale di montaggio disarmante perché onesta. La questione narrativa è tutta lì: volere il mito dei personaggi senza averlo creato, saturare fan con figurine bidimensionali che non li chiamano. Il problema non è un James Foley sotto il livello di guardia, chiamato ad assecondare l’accumulazione di situazioni elementari. Il fatto è che la serie inizia con un contratto e si chiude con un compromesso. Grey accetta la paternità, accorda autonomia alla moglie, scioglie il trauma passato: all’inizio la coppia era frutto di una trattativa, alla fine il compromesso è la sua essenza. Venirsi incontro, mettersi d’accordo. Ancora una volta, quanto più lontano dall’ardito battage e la conferma di un film normale, di normalità rassicurante, che c’entra molto col suo successo commerciale. Se del rapporto scambievole tra dominante e dominato è pieno il cinema americano oggi, appena magnificato da Phantom Thread, qui è la sua declinazione for dummies, la sua offerta sfacciatamente mainstream. Ecco allora che si torna alla nota frase di lancio: “Are you curious?”, Sei curioso?. E se ne realizza il significato: la curiosità non era la premessa ma la sostanza, la consapevole ragione d’essere. Cinquanta sfumature la tematizza questa curiosità: è un’operazione in tre film sulla curiosità in sé, sull’essere curiosi senza appagamento, sul voler vedere sempre frustrato (e quindi deriso). Ne è simbolo il teasing and denial praticato da Grey su Anastasia, la negazione dell’orgasmo che, visivamente, si applica anche a chi guarda: ciò che vogliamo non ci viene mai dato, il piacere è sempre rimandato. Che poi sia un brutto film è vero, ma la sua bruttezza dice qualcosa dell’oggi e del pubblico.