TRAMA
Estate 1983, tra le province di Brescia e Bergamo, Elio Perlman, un diciassettene italoamericano di origine ebraica, vive con i genitori nella loro villa del XVII secolo. Un giorno li raggiunge Oliver, uno studente ventiquattrenne che sta lavorando al dottorato con il padre di Elio, docente universitario. Elio viene immediatamente attratto da questa presenza che si trasformerà in un rapporto che cambierà profondamente la vita del ragazzo.
RECENSIONI
L’adattamento del romanzo Call Me By Your Name costituisce territorio prediletto per il regista americano James Ivory (della sua filmografia parlavo qui): una casa in Italia, un ambiente multiculturale che, come tale, diventa selva di segni da decifrare, in cui s’intrecciano lingue, culture, religioni e caratteri, in cui, regnando la differenza, la comunicazione va settata e si rinviene un codice comune nell’educazione, nel bon ton, nelle leggi non scritte dell’ospitalità, nei riti di una comunità (di una classe, di una famiglia), diventando, quello delle parole, un terreno ambiguo in cui l’equivoco e l’incomprensione occhieggiano in ogni dove, in cui anche una battuta reiterata (quel «Later!») si fa oggetto di analisi e decifrazione (è offensivo? Sottintende? È un innocuo intercalare?).
La scrittura di Ivory di Chiamami col tuo nome è, dunque, come il suo cinema, tutta concentrata sulla modalità del discorso, su quella coltre verbale che nasconde, confonde, distrae e nella quale, magari, un’unica parola conta, quella che vale come lasciapassare, che apre uno spiraglio, che crea una corrispondenza non evidente, ma che, sottintendendo un discorso fisico e sentimentale, opera intimamente: il coglierla diventa allora goccia che scava un percorso nell’animo e confluisce nel bacino di un’epifania, di una rivelazione identitaria. Perché un’altra delle costanti ivoriane che si ritrova nella novella di André Aciman è quella del personaggio che, fuori dal proprio ambiente (all’estero preferibilmente), scopre un nuovo sé col quale fare i conti, al quale dare o togliere voce per sempre.
È in questa rete che si trovano Elio e Oliver, è in questo groviglio che il loro studiarsi diventa un reciproco gioco al rialzo, una sfida a uscire allo scoperto e a smettere di rimuginare su una verità senza asserirla, senza neanche alludervi. L’azzardato passo verso una metamorfosi.
«È il fato. Lo chiami “Italia” se le fa piacere, vicario», così George Emerson in Camera con vista: l’Italia è il luogo del risveglio dei sensi e la sua arte ne è tramite ed espressione. Nel film citato Lucy Honeychurch a Firenze, in Santa Croce, dopo aver visto gli affreschi di Giotto, scopre di avere un cuore; qui le statue antiche e «la loro ambiguità senza tempo» sono agenti trasfiguranti che riflettono gli umori dei personaggi alludendo a quelle passioni che, bruciando sottopelle, finalmente si animano. I riferimenti all’arte classica, al corpo scolpito come sfida a bramarlo sono puro Ivory: non se ne rinviene traccia nel romanzo. L’attrazione tra i protagonisti è ancora sommersa, incrostata dalle convenienze, quando a Sirmione viene recuperato dalle acque del Garda un busto bronzeo (un nudo maschile, non è certo un caso): trionfante di bellezza, è il desiderarsi di Elio e Oliver che viene a galla. E il braccio della statua li avvicina fatalmente dopo uno screzio: l’arte è mezzo esplicito che dischiude ai sensi e alla coscienza un mondo di sensazioni sconosciute o inibite che chiede di essere esplorato.
André Aciman è il re dei rovelli mentali: i suoi romanzi restituiscono il lavorio mentale (cervellotico, ossessivo, onanistico) che i personaggi ingaggiano per comprendere ciò che accade loro, per interpretare i comportamenti delle persone che incontrano e desiderano; nel loro esasperato ragionare mettono sotto processo le azioni che pongono in essere, le rimeditano, le ridiscutono, le confrontano con altre possibili, ne suppongono l’impatto sugli altri. Di tutta la congerie di pensieri e ipotesi, dubbi e speranze, fantasie erotiche e sentimentali che si agita nella testa di Elio (la voce narrante del romanzo) Ivory fa piazza pulita: riduce il percorso interiore del personaggio, la battaglia strenua che sta combattendo col proprio corpo e col proprio spirito, a un gesto o a una situazione (la quieta masturbazione su un letto, uno sguardo di sottecchi, l’annusare un costume da bagno). L’attrazione che Elio prova per Oliver non si affida mai alle parole (quelle che riempiono pagine e pagine della novella), al contrario è mimetizzata: le motivazioni profonde che sono dietro l’agire del ragazzo sono affidate alla capacità di lettura dello spettatore. Tutto il cinema dell’americano si fonda sul principio che sotto l’impeccabile superficie delle cose scorra la lava incandescente delle umane passioni. La favola sull’impossibilità di esprimere l’amore (la legge la madre) è un altro segnale: perché quel cercarsi di Elio e Oliver è nell’aria, è visibile (come ciò che lo rappresenta: una pesca che pende da un ramo e che si coglie o l’albicocca di cui si discute l’etimologia), impregna di sé le circostanze, è recepito da tutti, anche dai genitori del ragazzo che forse già sanno senza saperlo (o non sanno, sapendolo).
Stante la consueta constatazione ivoriana delle logiche ambientali, la rivelazione non sta nel dichiararsi o nel sospirato, attesissimo bacio; la chiave di volta è in uno scambio che sembra quasi marginale, nella scena più bella del film, quella cruciale che vede i due protagonisti nella piazzetta del paese, muoversi attorno al monumento ai caduti (un pianosequenza col quale Guadagnino rinuncia al close up nel momento di maggiore esposizione emotiva e cattura l'attimo, la portata dei sottintesi che celano le parole dei due, guardandoli muoversi a distanza e poi ricongiungersi):
«Don't go anywhere. Stay right here.»
«You know I'm not going anywhere.»
Qui c’è Ivory al massimo della sua sottigliezza, il suo dire di un abisso di struggimento attraverso frasi brevissime che contengono però l’ammissione della propria incapacità a sottrarsi al fuoco che brucia, il denudarsi capitolando e il denudare anche l’altro. Perché chi dice che non va via, che resta lì ad aspettare, dice anche che l’altro lo sa.
Se Ivory esplora una modalità di espressione del desiderio, i sommovimenti del cuore impercettibili all’esterno e il momento in cui si scopre una persona con la quale si riesce a diventare ciò che si è davvero (per questo si chiama l’altro col proprio nome), Guadagnino disegna il misto tra attrazione e distanza, il cercarsi muto dei protagonisti, componendo le immagini specularmente: la messa a fuoco di Elio è la sfocatura di Oliver, e viceversa, per dire della tensione a quel corrispondere, che è solo potenziale, che resta ancora dolorosamente inespresso.
Ed è in questo sapiente lavoro sul tessuto visivo che il film trova un suo ritmo interno, uno schema visibile e invisibile a un tempo che veste il trattamento di Ivory. Un tema figurativo caratterizzante che Guadagnino riesce a variare impercettibilmente. Ma la sua messa in scena va oltre questo: Guadagnino ricostruisce un terreno sentimentale, idealizza la (sua) memoria: questo romanzo di formazione celebra un ricordo, un’epoca del cuore, ricrea un mondo personale. Inscena il tempo perduto e un passato assoluto: per questo la storia tocca così indistintamente, perché, d’accordo l’omoerotismo, ma qui si parla della purezza dell’impulso a essere se stessi, qualunque cosa l’assecondarlo comporti; della volontà, non intaccata da riflessioni di circostanza, a non rifiutarsi nulla, a viversi fino in fondo ogni brivido. Si parla, insomma, della preziosa incoscienza dell’età verde, di quel «perenne amare i sensi e non pentirsi» (Forse la giovinezza è solo questo, Sandro Penna) che è proprio di una stagione della vita. È un inno a quell’uso e abuso di un cuore che si consumerà presto, di un corpo assetato di piacere che, ora giovane, con gli anni nessuno guarderà più (il discorso paterno, alla fine).
Gli anni 80 sono quelli della gioventù del regista, uno spazio-tempo fatto di nostalgia. Non si tratta, dunque, soltanto di ricostruire un’epoca, ma di dar conto con autenticità di un’esperienza che si è incisa sulla pelle: la lettura estiva di Diabolik, Traslocando di Loredana Bertè sul piatto, la radio sempre accesa che «brucia la nostra canzone», l’orologio al quarzo al polso, lo zainetto Invicta in spalla, Rockstar in edicola, il walkman sempre dietro, la t-shirt dei Talking Heads, Tootsie al cinema, Sammy Barbot e Beppe Grillo in televisione, le discussioni su Craxi e il pentapartito (banali perché così ce le ricordiamo). Quelli che il regista mostra (fin dai titoli iniziali: tra le foto delle statue antiche, ci sono il Corriere della sera, L’Espresso, le carte da gioco Modiano, i biglietti del treno, le 50 e le 10 lire, le sigarette Nazionali) non sono feticci, sono madeleine che riattivano un’intera tranche di vita, che portano con sé il gusto di un decennio, di un luogo (l’indolenza di un’estate come un’altra nella campagna lombarda): sono particolari che assumono valore simbolico, più forte di quanto ne avessero allora perché sintesi concreta di un ricordo che va oltre quel particolare, che investe, rievocandolo, un intero vissuto.
Chi c’era sa perché Guadagnino ha scelto Radio Varsavia di Franco Battiato, ricorda che L’arca di Noè (1982) è stato uno dei dischi più attesi della storia della discografia italiana, il seguito del best seller La voce del padrone, il dopo-un-milione-di-copie che si risolveva in un clamoroso, ostico lampo di 27 minuti che si apriva proprio con quel pezzo; Radio Varsavia, rimandata dalle emittenti, esplodeva finalmente nell’aria dopo la spasmodica attesa: le sue note recano l’aroma di quel periodo. Chi allora non c’era ne percepirà comunque la coerenza con il mondo - incantato e naturalista a un tempo - che Guadagnino sta creando, rinvenendo la passione di Elio nei dettagli: la musica suonata al pianoforte, i libri che sfoglia, le canzoni in voga, i rumori (splendida la presa diretta dei suoni della casa - quegli echi nei corridoi, così veri - e di quelli delle stradine del paese) sono marchiati dal suo sentire; ciò che gli accadde dentro impregna ogni dettaglio di quell’estate e ogni dettaglio di quell’estate racconta di ciò che gli accadde, è una simbiosi inscindibile che Guadagnino, investendo il suo personale (non solo geografico, evidentemente), rende con la sobrietà di registro che il tema reclama, la precisione scenografica del contesto evocato, la squisitezza di tratto nel disegno delle figure secondarie, la rimarchevole direzione degli attori.
Racconto di un rito di passaggio, di un desiderio (della sua presa d’atto, prima), della irrinunciabilità a una gioia a portata di mano, del tentativo di spiegarsi senza essere fraintesi e della battaglia ingaggiata contro la resistenza a dire, Call me By Your Name si fonda sul punto di vista privilegiato di Elio; non c’è la sua voce narrante, ma lo sguardo è il suo: questo aspetto non è un dettaglio, poiché in questa prospettiva Oliver è parte di una rievocazione, quella del diciassettenne (per questo rilevante è anche la didascalia iniziale: Summer 1983. Somewhere in Northen Italy). Quindi, anni dopo, eccolo l’ospite ridipinto dal ricordo di Elio: fascinoso, bello, perfetto. Ovvero inumano. Come una statua. Come il fantasma del desiderio di allora. Per questo crediamo a Elio che lo brama e crediamo meno a Oliver che brama lui: chi sta ricordando conosce già la fine della storia, sa che dietro certe frasi dell’ospite c’è la preoccupazione principe di una persona che dimostrerà di credere a quel legame solo fino alla scadenza del soggiorno nella villa (ha una ferita nel fianco: il segno che la sua immagine non è più integra e va a corrompersi), nella consapevolezza che a casa, negli USA, c’è una storia normativa che l’attende e che normativamente si concluderà.
La prima parte è allora il ricordo di uno struggersi all’interno del confortevole nido familiare; la seconda, una volta che i due giovani si manifestano reciprocamente, è invece la cronaca di un distacco annunciato, il racconto di come si è convissuti con la coscienza della fine, con il countdown che scandiva il consumarsi dell’estate e dell’utopia. Fuori dalla mitologia della casa italiana ricolma di bellezza, c’è la società, la dittatorialità delle sue regole, la convenienza di non trasgredirle. Oliver chiama per comunicare che si sposa: nel finale (che, nella leggerezza dell’opera, ha la pesantezza del proporsi coscientemente come un finale, l’enfasi un po’ ingombrante, in una storia così delicatamente condotta, del pianosequenza definitivo) Elio non piange di fronte al fuoco solo per sé. Ma perché chi era dall’altra parte della cornetta ha detto che non dimentica nulla: se tutto è vivo dentro la mente di Oliver, allora le lacrime di Elio sono soprattutto per quel gettare la spugna, per quella resa unilaterale che sancisce la sconfitta della loro unione.