TRAMA
Quando Lila, una famosa cantante in declino, dimentica, in seguito ad un incidente, come esibirsi, Violeta, una super-fan che la omaggia al karaoke, interviene per insegnarle come essere Lila ancora una volta.
RECENSIONI
Terzo lungometraggio del regista spagnolo Carlos Vermut, Chi canterà per te?, ispirato alla storia vera della popstar giapponese Naomi Chiaki e un po' a tutte le dive sul viale del tramonto, è innanzitutto un melo e, come tutti i melo recenti, un oggetto cinematografico postmoderno pieno di citazioni e pastiche. Il gioco dei riconoscimenti comincia dall'associazione più pigra e automatica, fondata su corrispondenze lampanti. Melo + Spagna = Almodovar. In realtà c'è poco di almodovariano nei colori, nelle atmosfera, nelle luci, nel disinteresse per il pop e per il kitsch. Forse l'unico punto di contatto è con La pelle che abito, il film più glaciale e inorganico di una filmografia. Vermut e Almodovar, semmai, si orientano con le stesse stelle polari. Lila Cassen, coprotagonista del film, potrebbe tranquillamente essere il nome dell'eroina eponima di un film di Fassbinder. E ancora più integralmente fassbinderiana è la dominante emotiva sadomasochista tanto nella messa in scena quanto nella scrittura, nel gusto per il supplizio che motiva tanto le azioni dei personaggi nella sceneggiatura quanto la scelta dello spettatore di proseguire la visione (le scene madre-figlia tra Violeta e Marta appositamente più lunghe del necessario). È fassbinderiana - e ovviamente in questo caso anche almodovariana - la concezione di un film totalmente femminile dove nessuno dei comprimari maschi supera il test dei Bechdel. C'è un sentimento di Bergman, in particolare Persona, molto forte nell'attacco, nell'ambientazione e nelle prime fasi narrative, poi gradualmente stemperato come se, a quel tipo di indagine nell'abisso fino all'astrazione e all'indicibile, Vermut preferisse l'approccio pragmatico e spettacolare. Soprattutto c'è tantissimo Hitchcock. Il tema dello sdoppiamento dell'identità è eminentemente hitchcockiano, ovviamente, e forse, ancora più de La donna che visse due volte, è Rebecca la prima moglie un riferimento per il tono da castello gotico con vestale addetta al culto che assume la Xanadù vista mare di Lila Cassen. L'eccellente colonna sonora che anticipa la prima immagine dando il tono e poi continua a fare da contrappunto ambientale invece ricorda più genericamente il melo classico americano, da Douglas Sirk in giù.
La galassia tematica è una partitura attorno a poli specifici: oltre alla già citata identità, il vampirismo, la maternità, il fallimento e soprattutto la fedeltà. Le cose si fanno interessanti e fassbinderianamente perverse a partire dal secondo livello di intreccio. La maternità e in generale la relazione matrilineare è un rapporto vampiresco e cannibalistico. Incombe su tutto il film un gigantesco ragno di Louise Bourgeoise moltiplicato in un gioco di specchi. Le figlie si nutrono dei fallimenti materni fino a divorarle e viceversa; le figlie torturano le madri per sopravvivere; figli e madri si uccidono non solamente in senso metaforico. Relazioni saprofite da paguro e attinia lasciano esoscheletri spiaggiati dove si insediano corpi molli (l'ambientazione marina, la spiaggia come luogo dove si apre e chiude il film). I legami di sangue - e non dato che anche il rapporto tra la manager e probabile compagna Blanca e Lila Cassen è un'ulteriore variazione sul tema madre-figlia - tendono a un quadro zoologico dove l'unico spazio effettivamente umano dove si gioca il libero arbitrio è quello della fedeltà. Violeta sceglie di tradire il reale triviale e squallido del sangue per affermare la sua fedeltà (fede) nel sogno. Quando, verso la fine del film, diventa chiaro che Lila Cassen è un progetto collettivo ("le ho detto che eravamo entrambe Lila"), un mostro che si nutre di svariate vite, Violeta non esita a offrire in olocausto la propria figlia come ampiamente preconizzato dalla minacciosa promessa di visita al museo del Prado dove è esposto Saturno che divora i suoi figli di Francisco Goya, l'altra opera d'arte che domina l'orizzonte di Chi canterà per te?
Che si tratti di un film perverso ci è confermato dall'innamoramento della macchina da presa per superfici, le qualità visive e soprattutto sensibili tattili che trasmettono. Se c'è un investimento libidico in un film dal quale è integralmente asportata ogni rappresentazione di atto sessuale, dove nonostante una tensione erotica lesbo praticamente ininterrotta non si vede in due ore neppure un bacio, esso è sui tessuti, nell'insistenza e nella precisione con la quale la camera esalta le lenzuola e gli abiti di crêpe o paillettes (e nel ruolo narrativo fondamentale da snodo faustiano assegnato proprio a un abito), come si sofferma sui divani, le pareti, andando in close up ogni volta che mani toccano un oggetto, oltre che sulla superficie marina incombente, inquietante, gonfia, orizzontale e piena di riverberi. L'inquadratura formalmente sempre complessa è compensata dall'uniformità tonale nell'apparente paradosso di un barocco freddo. Al rutilante sgargiante arcobaleno di Almodovar (mania?), Vermut contrappone una palette piena di bianchi, crema, grigi, beige (depressione?) che rimandano al Freddo Pulito di Tommaso Labranca come estetica precipua all'elettronica minimale anni ottanta/novanta con correlativo materiale nella plastica e si ritrova anche nelle basi sintetiche, plasticose delle canzoni di Lila Cassen.
Lo stile di Vermut, coerentemente alle premesse citazionistiche e all'attitudine perversa, è studiato e lavorato, dà l'impressione di un linguaggio estremamente consapevole che sceglie il controllo a scapito dell'improvvisazione. È un cinema pensato in anticipo in cui spesso il controcampo (un paesaggio per esempio) anticipa il primo piano del soggetto che guarda, che calcola precisamente anche gli indugi macroscopici, non solo nelle già citate scene madri ma anche nei raccordi. È un cinema che coreografa l'insieme (l'effetto partitura) come certe singole scene con effetto iride: la scena, centrale per importanza e posizione e eponimia, dell'esibizione a due sulle note di 'Quien te cantarà' dei Mocedades fluidamente passa dal piano realistico a quello squisitamente onirico/estetico, come in musical hollywoodiano o forse di Powell/Pressburger, per poi sfumare in una sorta di rave cui partecipa la figlia di Violeta alludendo a una sorta di agglutinamento di storie e vite e, insieme, all'inestricabilità di realtà e allucinazione. Perché - ed è forse l'aspetto più hitchcockiano di tutti e il motivo per cui mi sembra che ci sia dietro Persona ma ancor di più Rebecca - dietro il perverso, il vampiresco domina il sottotesto della schizofrenia, della personalità scissa che colpisce con diversi gradi e modi tutte le protagoniste. Se c'è una soluzione a un paesaggio umano irredimibile al punto di ricordare Lars Von Trier è l'immersione, l'abbandono, l'annegamento nella superficie (nel mare).