Amazon Prime, Drammatico, Sentimentale, Sportivo

CHALLENGERS

Titolo OriginaleChallengers
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2023
Durata131'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

2006: i liceali e i migliori amici d’infanzia Patrick Zweig e Art Donaldson vincono il titolo di doppio junior per ragazzi all’US Open. In seguito incontrano Tashi Duncan, una giovane promessa del tennis, ed entrambi ne restano irrimediabilmente attratti.

RECENSIONI

TESTA DI SERIE #1
IL GIOCO È BELLO QUANDO DURA PER SEMPRE 

Game, set, match. La partita comincia prima dei titoli di testa, stretta in quei primissimi piani leoniani, già eroici e furiosi, incisi in fotogrammi magnetici, eternati in un movimento culmine, nell'acme dello sforzo e del desiderio; un respiro a tre, un gesto sublime cristallizzato nell'ambra e magnificato dal 35 mm, quello degli sfidanti di Luca Guadagnino, corpi che sono già altro(ve).
Game, set, match. Tre, due, uno, anzi una, Zendaya/Tashi, fulcro costruttivo e distruttivo di due punti fermi, Patrick e Art, amici, complici, alleati, che per lei tracciano una linea divisoria in un rapporto simbiotico, dalla stessa parte del campo da tennis che è ambiente comunicativo segreto, fin dal gesto nascosto dietro la schiena con cui si apre il lungo flashback (13 anni prima degli opening credits, dell'opening act, della partita infinita) che procederà a dar la cronaca della loro separazione.
È un progetto su commissione Challengers, il primo film davvero hollywoodiano di Luca Guadagnino – per valore produttivo, per star power conclamato della protagonista, per modalità industriali di promozione e distribuzione – che non perde tuttavia un'oncia di sé, del suo fare cinema impenitentemente fuori norma, fuori canone, fuori genere. E difatti l'ottava opera del regista pare, nella prima metà, una parodia degli sport movie, una burla agli standard della parabola trionfale american-dreamy, Borg/McEnroe, giocatore ribelle vs antagonista composto, fuoco vs ghiaccio (non sapremo mai chi è chi: non è l'archetipo che importa). Guadagnino ne avversa la linearità accomodante e la costruzione disciplinata, non sapremo mai nemmeno perché Art e Patrick vogliono davvero giocare a tennis, e le risposte pigramente suggerite dagli altri o da loro stessi – evitamento della vita, dell'età adulta, della responsabilità – non pertengono alla dimensione che interessa all'autore. La domanda giusta la poneva quasi ottant'anni fa un altro meraviglioso film: «Why do you want to dance?» chiede Lermontov a Vicky in Scarpette rosse. «Why do you want to live?» risponde lei. Se la vita è racchiusa nel campo da tennis, raccontato, percorso, guardato sopra, sotto, intorno, in ogni suo angolo, anche invisibile, anche impossibile, e il vivere non si può spiegare, ci si sta semplicemente dentro, ebbene allora è il suo conflitto, la sua evoluzione, le sue relazioni a dargli un senso. E Tashi lo sa meglio di loro: incantatrice e rovina, dea e arpia, al party Adidas li osserva muoversi goffi e ingenui – lei uscita da un musical, una leggenda, una malia fiabesca, loro... da un film di Judd Apatow – e li sfida a un cambiamento, a una frattura nell'ordine – del genere di cui fanno parte, della patina stereotipica che li inchioda.

Il triangolo non è mai davvero tale, è un'increspatura che si allarga sul resto, sulla superficie molle: Tashi è una presenza detonatrice, un fattore scatenante, un motore d'azione, ma sempre estranea, puro sguardo che attiva, conduce, crea, fabbrica, scompiglia e reimpasta; sempre al di là, a bordo campo, a un metro o a qualche centimentro da loro, seduta sugli spalti o sul letto a osservarli giocare, sognarla, baciarsi. (E così Zendaya, figura quasi chimerica, lontana, nel suo allure divistico imperiale, irraggiungibile dai più ordinari O'Connor e Faist: funziona infatti quasi meglio come simulacro che come attrice...). È lei ad attivare il desiderio, a farlo scoprire, a far sentire a loro e a noi la potenza vitalistica che scorre invisibile nelle vene, nel film, portata dal vento (in una scena magnifica dove è l'elemento naturale a decidere del sentimento, proprio come in un momento fatidico e gemello nel Matthias & Maxime di Xavier Dolan). È lei a trasformare le pedine in esseri umani, gli atleti in corpo, pulsione, sudore, luce – e che sublime goduria la fotografia di Sayombhu Mukdeeprom, che si allunga oltre il presente e strappa i chiaroscuri artefatti della golden age (con quel momento fuori dall'hotel che pare un flash visivo dal West Side Story di Wise e Robbins); e che geniale sfacciataggine la soundtrack di Reznor & Ross, il suo utilizzo, un'onda d'urto a creare un rituale sincopato e infuocato, ingressi aggressivi, schiaffi maleducati, rigurgiti emersioni di voglie di rabbie di istinti di represso.

Poiché tutto, in Challengers, concorre a urlare ad Art e Patrick di scrollarsi, di respirare, almeno un'altra volta, di superare l'ostacolo in un doppio viaggio erotico-amoroso dell'eroe, di tornare a comunicare per poter finalmente ricostituirsi in un abbraccio (e con un simile abbraccio d'accettazione si concludeva uno splendido film uscito da noi appena due mesi fa, Estranei di Andrew Haigh, Eros e Thanatos in un unico istante, in una culminazione pre-morte, qui pre-vita...). D'altronde per Guadagnino il cinema è (tra le moltissime altre cose) un perpetuo tentativo di ricomposizione, di unione impossibile fra occhio e immagine desiderata, fra un certo tipo di amore, di personaggio, e la sua macchina da presa: in Challengers Josh O'Connor recita come Jack Dylan Grazer in We Are Who We Are che recitava come Timothée Chalamet in Chiamami col tuo nome. Microespressioni, postura, prossemica, sguardo, tic, atteggiamento: questa trasmissione, la viralità di questo modello che si riproduce da interprete a interprete, come se una singola idea di uomo – di desiderio – li possedesse tutti, è forse uno dei misteri più belli del cinema di Guadagnino; una replica rincorsa con struggimento, la sublimazione di un ideale da fermare lì, in un attimo perfetto. Come nell'incipit di Challengers e come nel suo finale, un'esclamazione di meraviglia e shock, un grido di vittoria, un orgasmo per sempre.

TESTA DI SERIE #2

Fateci caso la prossima volta in cui incontrerete uno di quei servizi del tiggì o di quegli articoli dietro i quali senti la marcetta di "Fratelli d'Italia" e lo speaker tronfio e comico dell'Istituto Luce mentre celebrano "il momento del cinema italiano" per via di qualche premio che si spera di raccattare in questo o quel festival, come se il cinema fosse i mondiali di calcio, l'arte una questione di trofei in bacheca e noi - "noi" perché come ogni questione di tifo prescinde da ogni altro strumento valoriale e fa del fatto identitario condizione necessaria e sufficiente - fossimo sempre i poveri ma belli, con quella retorica da valigia di cartone per cui dobbiamo farci largo tra giganti che hanno la forza e il denaro mentre noi abbiamo solo il nostro cinema apoditticamente più bello del mondo probabilmente per un fatto climatico, perché siamo il paese del sole, per lo stesso motivo per cui abbiamo senza discussione il cibo più buono. Fateci caso, se la voglia di sotterrarvi non prende il sopravvento su ogni altra sensazione: tra i nomi sciorinati come undici titolare azzurro non appare praticamente mai il regista vivente nato in Italia di gran lunga più introdotto, riconosciuto e celebrato a ogni livello del cinema globale, dallo showbiz alla critica dura e pura, Luca Guadagnino. Questo perché Guadagnino e il suo cinema non hanno nulla di provinciale, hanno fin da subito stabilito di non muoversi all'interno di confini (anche ma non solo geografici) e considerare piuttosto la confraternita sovranazionale degli autori come proprio orizzonte e dimensione naturale. Si muovono disinvolti tra i temi, le estetiche e gli attori cutting edge, tra Deleuze e Loewe, tra il remake e l'avanguardia, tra gli Oscar e i Cahiers, tra i botteghini sbancati e l'inserimento a pieno titolo nella linea nobile dell'arte contraria. A differenza del regista italiano medio, Guadagnino è davvero coltissimo e per lo stesso motivo, a differenza del regista italiano medio, non ha paura di contaminarsi col pop e il kitsch, non deve indossare il middlebrow come un'armatura. C'è un'ambizione e anche un'arroganza nel modo in cui Guadagnino interpreta l'essere autore e artista che è provvidenziale per il cinema.

Il film sul tennis - ma attenzione: il regista avverte che il tennis è solo una metafora - arriva chissà quanto per calcolo e quanto per serendipità in momento di massima attenzione e interesse globale, il passaggio di consegne tra imperi con i Big Three Federer Nadal Djokovic ridotti a uno sul punto di passare lo scettro a un gruppo di giovani capitanato da Sinner Alcaraz che, per motivi sportivi e caratteriali, piacciono a tutti. Non c'era momento migliore per far uscire un film sul tennis, figuriamoci se poi il regista poco italiano senza cappello in mano che consacrò Timothée Chalamet può scritturare l'altra massima superstar identitaria Gen Z, Zendaya. Il risultato prevedibile è il primo posto per biglietti staccati da ambo i lati dell'Atlantico. Tuttavia, se il fenomeno Challengers è un'ulteriore consacrazione, il film risulta uno dei momenti relativamente meno riusciti e interessanti del Guadagnino maturo da Call me by your name in poi. Non è questione di integrità o "svendita" in prospettiva pop di massa globale perché da quel punto di vista, come vedremo, la coerenza con lo sviluppo di una poetica autoriale è ammirevole. Il punto critico è piuttosto, in un film sullo sport e "sugli sportivi in qualche modo meno normativi forse perché devono piegare i loro corpi in maniera innaturale per essere eccezionali o credere di esserlo", un retrogusto di esercizio, un che di freddo e ginnico. Come se l'operazione dichiarata di decostruzione di un genere "un po' fascio" fosse riuscita a metà.

C'è un riferimento sublime se si parla insieme di tennis, spettacolo e erotismo. Nelle prime pagine del capolavoro assoluto di Christopher Isherwood poi sventrato da Tom Ford, A single man, il protagonista passeggia per i campus del college dove insegna finendo magnetizzato da una visione: la partita di tennis tra un piccolo, scattante, nervoso, bruno latino dominante e un alto, composto, regale e soccombente biondo caucasico, entrambi shirtless. Il voyeurismo del simulacro di supplizio, della scena erotica gratuitamente donata dal mondo riattiva letteralmente la voglia di vivere del professore vecchio e stanco. Racconta Trent Reznor che l'unica indicazione contenuta nella prima email di indicazioni per la colonna sonora scritta da Guadagnino fu "è un film molto sexxxxxy" con un numero imprecisato di 'x'. Proprio nulla si può obiettare a proposito della bellezza dei tre protagonisti (Zendaya, Mike Faist, Josh O'Connor), ai loro corpi visti ora in totale in pose suggestive, ora in feticistici close up e non abbiamo motivo per dubitare che anche stavolta, come dichiarò anni fa parlando del suo rapporto con gli attori, Guadagnino non si sia innamorato di ognuno di loro. Eppure il regista che è sempre stato magistrale nel filmare i corpi perché il suo sguardo era attraversato da un deleuziano desiderio concatenato fino a contaminare gli oggetti e persino la luce e l'aria, perché il suo desiderio passava da un esistenzialista aderire alla forma di vita che il singolo corpo esprimeva, in questo caso pare tradire un certo distacco formalista, un certo patinato, un certo mestiere. Specularmente, a differenza di altre opere dalla fluidità miracolosa come la serie We Are Who We Are - e correttamente visto che il film racconta di personaggi che non hanno avuto il coraggio di infrangere la norma sociale - Challengers possiede una struttura molto riconoscibile, molto simile a quella del remake di Suspiria: la venerazione citazionista di una forma e poi la sua deflagrazione. La sceneggiatura di Justin Kuritzkes è impeccabilmente costruita fino alla didascalia nella ripresa dei topos del cinema sportivo a stelle e strisce: la competizione, la cacciata dall'eden e il faticoso ritorno, l'ultima chance, il viale del tramonto, l'underdog e il campione, la dialettica tra amore e successo e così via. Guadagnino la asseconda per 3/4 di film con una regia completamente padroneggiata. Il discorso sui generi e sul cinema americano cominciato con il viaggio di Bones and all attraverso i suoi momenti devianti, dall'horror a Lynch, dal road movie a Carpenter vira al pop e continua con una ricognizione che sintetizza tanto il genere sport & rivalsa così amato oltreoceano per affinità ideologica con l'american dream quanto le commedie anarchiche anni '80 di John Landis e John Hughes (si vedano i tempi comici del tentativo abortito di scroccare una notte in hotel da parte di Josh O'Connor e il montaggio millimetrico del rifiuto della carta di credito) per finire in territori American Pie con le scene di college con churros fallici condivisi. Guadagnino dimostra un'altra volta di saper assorbire e digerire le tecniche e i linguaggi più variegati per poi rimontarli a piacere. E, come in Suspiria, nel lungo finale si diverte a detonare l'edificio. Tornano echi lynchiani e a partire dal primo virtuosismo non necessario - la ripresa in soggettiva giocatori - sarà un crescendo di follia che trasformerà il terzo set della finale del torneo challenger di New Rochelle in uno spettacolo tutto ritmo e antinaturalista, decostruito e deformato a ricordare le rappresentazioni sportive degli anime. Non sappiamo dirlo meglio: Guadagnino fa sbroccare il film. È tutto estremamente interessante e godibile anche se un po' troppo calcolato, manca lo spessore obliquo, la mano libera, la freakness che ha reso davvero sexy la sua produzione matura, a partire da Call me by your name (qui per altro più volte ironicamente citato). Ad ogni modo va menzionata e celebrata la clamorosa, epocale colonna sonora techno acid house scritta da Reznor e Atticus Ross capace di trasfigurare un cinema in rave berlinese. La musica sparata mentre sullo schermo passa l'immagine pura potrebbe essere una intensificazione del più riuscito cinema videoclipparo-autoriale anni '90 (citofonare Kar-Wai).

In uno dei rari dialoghi programmatici, Zendaya definisce il tennis come relazione - e quindi metafora dei rapporti umani. È la chiave del film. Guadagnino continua a esplorare le possibilità relazionali stando dalla parte del nuovo, dello sperimentale e delle "young ideas". I tre protagonisti hanno avuto il loro momento decisivo: avrebbero potuto scardinare l'inerzia della coppia monogama ed eterosessuale, della struttura nucleare e provare a vivere una fluida throuple per vedere dove li avrebbe portati. Mancò il coraggio e di conseguenza ognuno inconsapevolmente firmò la condanna all'infelicità. Aver vinto oppure no secondo parametri sociali è in questo senso completamente ininfluente. A differenza dei gen Z di We are who we are che sanno cosa (non) essere, il rientro nei ranghi li ha dannati. Ma forse - è il finale sospeso che non a caso ha mandato in tilt il pubblico americano - può accadere la cosa la cui esistenza è stata negata da Francis Scott Fitzgerald, ossia il terzo tempo nella vita di un americano. Il modo plateale in cui i duellanti infrangono la prima regola del tennis ossia la sacralità del campo da gioco e il divieto di invasione e ancor più di contatto fisico è di fatto un happy end. Luca Guadagnino sviluppa il suo discorso poetico e filmico declinandolo nelle forme della grande produzione blockbuster con divi - e soprattutto diva. Qualcosa va inevitabilmente perso nella traduzione ma ci ricorda il Gus Van Sant anni '90, i suoi comunque impeccabili film "normali" come Good Will Hunting e Scoprendo Forrester, che servivano a finanziare e rendere possibili Elephant e Gerry. Challengers è un film godibilissimo anche se parzialmente deludente perché cede qualcosa al convenzionale - soprattutto in fase diegetica e nell'evoluzione troppo scolastica del rapporto a tre - e risulta meno perverso, con un sexxxxxy più Bruce Weber che Bataille. Eppure conferma che Guadagnino non solo è una figura sempre più rara, ossia un Autore, ma che ha raggiunto una dimensione tanto trasversale da poter continuare a fare cinema libero, ribbon of dreams. Il suo successo è sempre manna per il cinema.

TESTA DI SERIE #3
TENNIS CARNALE

Che Guadagnino rielabori cineimmaginari ce lo dice da sempre la sua filmografia. In fondo Io sono l’amore sta a Gruppo di famiglia in un interno di Visconti come, più esplicitamente A Bigger Splash sta a La piscine di Jacques Deray, come il suo Suspiria sta, alfine dichiaratamente, a quello argentiano. E come questo Challengers sta a Conoscenza carnale di Mike Nichols. Non si tratta di remake, neanche di semplici rivisitazioni, è più un respirare certi modelli e, destrutturandoli, riproporli nella modernità, assieme ad altre sparse schegge («Risignificarli, riportarli all'interno del film non come mortuarie, museali citazioni, non come operazioni intellettuali fini a se stesse, ma come materia viva da convertire in nuovo cinema» scrivevo a proposito di A Bigger Splash). Di certo non è un indulgere nella civetteria cinefila e sempre riuscire, attraverso l’operazione di testa, a sondare gli abissi del desiderio, dell’attrazione, del viscerale con una consapevolezza che si manifesta in primo luogo nello stile. Perché anche questo è un film intriso di sguardi, punti di vista e prospettive. Un film in cui a regnare è l’immagine.

Conoscenza carnale, si diceva. Come nel film di Nichols anche qui si propone il triangolo tra due giovani amici e compagni di camera, due caratteri diversi, ma legati da una mitologia sessuale condivisa che si fa carne nella stessa donna; come allora anche oggi il sesso quale materia vagheggiata (teorizzata) prima e praticata poi; allo stesso modo si riproducono gli equilibri di un’amicizia virile sconquassati dal femmminino, in un garbuglio di relazioni incrociate, segreti e bugie. In questo senso la scena di Challengers del primo avvicinamento a Tashi da parte dei due amici&avversari - nel ricevimento finale del dopo-partita - è del tutto sovrapponibile a quella della festa studentesca del film del 1971 in cui Sandy e Jonathan adocchiano Susan: c’è un lavoro sul gergo usato dai promettenti tennisti Patrick e Art - quello goliardico amicale di due giovani arrapati -  che è in tutto uguale a quello usato dai protagonisti del film di Nichols (un linguaggio che, assieme ad alcune scene esplicite - per l’epoca -,  fu all’origine dei problemi che il film ebbe con la censura).

E naturalmente Challengers vale anche come variante (decodifica?) omoerotica di Conoscenza carnale che, proprio nel suo esasperato machismo, implica una tale rilettura:
- nelle parole: «I’d let her fuck me with a racket» dice Patrick all’amico prima che attacchino bottone con Tashi; in un’altra occasione «We don’t live together» dice Patrick a Tashi e Art aggiunge «It’s an open relationship»).
-  nelle immagini: il trio seduto sul letto che amoreggia, Tashi che si sfila per lasciare che i due ragazzi si bacino. In questa scena è come se l’esperienza primaria dei due (la sega sulla stessa ragazza, per come ci è raccontata da Art) trovi finalmente la strada del contatto fisico e dell’esplicitazione del desiderio. Tashi, come la ragazza della sega, è un tramite (un arbitro?), un ponte che infine collega fino al contatto i corpi dei due amici. Oltre a proporsi come un paravento etero dietro il quale nascondere la propria pulsione. Una pulsione omo a cui Guadagnino ammicca in più occasioni: seriamente (quando nello spogliatoio Patrick scorre i profili di Tinder in cerca di un date, si sofferma qualche attimo sulla foto di un uomo, come se valutasse la possibilità di contattarlo) e ironicamente (la scena della sauna, Art a Patrick: «Can you put your dick away?», per non parlare dei churros e della banana, dove l’allusione si fa kitsch). Ma con questa chiave di lettura è possibile (ed evidente) percorrere tutto il film, quasi scena per scena. 

Vado oltre. Mi piace pensare che Challengers giochi con Conoscenza carnale anche nel suo porsi all’esatto opposto nell’approccio visivo: così lo stile eclettico e multiprospettico del film di Guadagnino vale come specchio capovolto delle lunghe sequenze frontali, di stampo teatrale, del film di Nichols. E la scomposizione esasperata dei livelli temporali di Challengers come ricombinazione dei blocchi in cui si snoda la cronologia del film del 1971. E il dominio del tennis-giocato nel film di Guadagnino come antipodico rispetto all’unica scena di tennis in Conoscenza carnale, concentrata sui due personaggi che guardano una partita che rimane sempre fuori campo, Nichols non mostrandola mai.
Chiudo in eccesso, ma non vedo casuale che il personaggio interpretato da Mike Faist in Challengers si chiami Art come Garfunkel, che interpreta Sandy, il suo omologo nel film di Nichols, ovvero il lato debole del triangolo, lo sposo della donna ambita dai due compagni.

We can talk about tennis without you thinking it’s about your dick

Nota a margine: nel film il discorso della sfida (challenge) non è mai completamente giocato sull’attrazione o sullo sport, ma sempre su entrambi: non si comprende se il tennis sia una metafora del sesso o il contrario. E la sceneggiatura gioca su questa ambivalenza in modo sublime, soprattutto oscillando tra i due fronti attraverso i personaggi di Patrick (il sesso) e Tashi (il tennis, lei che si presenta come una specie di Monica Seles contemporanea, una macchina schiacciasassi: come lei una carriera fulminante stroncata prematuramente), due visioni del mondo mosse da intenti uguali ed opposti: per Tashi il sesso non è il fine, ma il mezzo. Per Patrick è il contrario. Così a diventare sessuali sono gli scambi del match, gli ansimi, il battente ritmo della techno di Reznor & Ross, fino all’apoteosi finale che replica sul campo la scena del letto: i due uomini che si affrontano/ confrontano/ amano e la donna voyeur che si gode lo spettacolo.

Tashi - Pensi sempre di poter fare semplicemente il tuo gioco e che la partita si risolverà da sola.
Patrick - Parliamo ancora di tennis?
Tashi -  Parliamo sempre di tennis.

WILD CARD

11 aprile 1988

L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci trionfa agli Oscar. Il freudo-marxismo ha vinto, scoprendosi al cuore di un sistema globale che sta già cominciando a dire addio alla Guerra Fredda. Attraverso un andirivieni tra passato in flashback e presente, Pu Yi fa la genealogia della propria dissoluzione nel fiume della Storia. L’infanzia, dominata dal principio di piacere, sta per cedere il passo all’ingresso del principio di realtà. Solo che, quando quest’ultimo irrompe, non c’è più alcun soggetto ad accoglierlo. Il bambino che fu Pu Yi, ultimo imperatore della Cina, esplorante lo spazio del proprio godimento, privo di limiti, scorrendo insieme al tempo fino ad annullarlo, con un movimento assecondato dalla cinepresa iper-erotizzante di Bertolucci, i cui mobilissimi splendori inciampano di volta in volta nell’immagine, sottratta al tempo, di un piacere svanito nel momento stesso in cui lo si prova e che si rende irreperibile quando ci voltiamo a guardarlo (attenzione: qui il tempo si annulla scorrendoci insieme, non sottraendo al suo scorrere l’immagine allo specchio di un corpo ideale che si mette in posa), va a fondo del proprio narcisismo e, insieme alla propria immagine allo specchio, lascia che a scomparire sia il soggetto stesso proprio nel momento in cui dovrebbe nascere per mezzo dell’ingresso nel linguaggio (quindi nella Legge, quindi nella Storia) e dell’abbandono di quell’immagine allo specchio che per prima gli aveva concesso di sentirsi un “io”.

8 settembre 1988

Anteprima di Inseparabili di David Cronenberg al festival di Toronto. Come il Pierre Clémenti di Partner di Bernardo Bertolucci, Jeremy Irons si sdoppia in due per interpretare due gemelli che si dividono la stessa donna. Anche qui, non si sopravvive alla propria immagine allo specchio: distrutta una, muore anche il soggetto che vi si dovrebbe specchiare. Attenzione: ben consapevole che, come ebbe a dire Jacques Lacan, “la donna non esiste” (non è, cioè, che una proiezione sintomatica del costitutivo sdoppiamento maschile), Cronenberg fa coincidere la donna con il proprio trucco. Supporre che invece esista non è meno paranoico del supporre che la tecnica abbia un fine: è quell’illusione, paranoica anch’essa, che chiamiamo “Storia” - o meglio: che essa soggiaccia a un telos definito, di cui i soggetti sarebbero gli strumenti. E a proposito di strumenti, quelli ginecologici di cui il film fa mostra hanno una doppia faccia: da un lato hanno un fine, dall’altro hanno in loro stessi il loro fine, non hanno cioè finalità che non sia estetica e dunque si trovano ad essere niente meno che pezzi da museo. È la tecnica in sé ad avere un fine in se stesso oltre ad averne uno fuori sé, e questo in tutti gli ambiti, compreso lo sport. Definitivamente asciutta, fino a far diventare sinonimi la logica e la pornografia, la regia di Cronenberg si pone esattamente all’opposto dell’erotizzazione bertolucciana: è la sua immagine allo specchio. Il suo film successivo, circa tre anni dopo, sarà tratto da William Burroughs (Il pasto nudo).

5 giugno 1989

Ottavi di finale del Roland Garros. Il diciassettenne Michael Chang, statunitense con genitori originari di Taiwan, batte l’allora assai poco battibile (specialmente su terra rossa) Ivan Lendl, nato in Cecoslovacchia ma successivamente naturalizzato statunitense. Molto di quell’incontro è rimasto nella memoria collettiva: i crampi, le banane ingerite da Chang in molti cambi di campo, e soprattutto i servizi dal basso del Davide di turno che fecero perdere a Golia-Lendl testa, nervi e match.

9 novembre 1989

Crolla il muro di Berlino. Blocco occidentale e blocco orientale cessano di fronteggiarsi. Comincia ad imporsi sulla scena internazionale un gigante che, da terzo incomodo, sintetizzerà i due ex-blocchi, l’uno l’immagine allo specchio dell’altro. Le proteste a piazza Tien An Men, durate quasi due mesi e finite il 4 giugno 1989, sono la dimostrazione plastica che la Cina non ha nessuna intenzione di venire semplicemente assorbita dentro il blocco che temporaneamente si crede vincitore; qualcuno, tuttavia, parla comunque di fine della Storia, con il blocco occidentale che mostrerebbe la via a tutti gli altri. Altri, decenni dopo, prenderanno atto che, visto che non si entra nella Legge se non scomparendo, la perversione è il nuovo mainstream: al cinema, che qualcuno crede finito, rimane il compito della celebrazione rituale della costruzione di ciò che non c’è (la donna, l’Altro che presiede alla consistenza del soggetto), e della non meno rituale riconferma che il soggetto e la propria immagine allo specchio, anziché sparire insieme (ciò in cui il secolo scorso identificava la loro intima vocazione), si scambiano (“cambiano campo”) per sostenersi, ma senza annullarsi. Il narcisismo guarda indietro alla propria novecentesca dissoluzione, ma per conservarsi meglio. Gallimard, nella prigione di M Butterfly (David Cronenberg, 1993), con addosso il kimono e il trucco dell’amata/o, non si uccide più: accetta di diventare lui/lei stesso Legge. O un arbitro.