TRAMA
La rivolta in carcere coinvolge anche un giovane dipendente dell’istituto, appena assunto, che, per salvarsi, si finge detenuto.
RECENSIONI
Il film di Monzon, forte delle sue credenziali (fu presentato con successo alle Giornate degli Autori veneziane e in patria ha fatto incetta di premi Goya), non inizia affatto male: l’idea di un infiltrato involontario, nella rivolta che scoppia nel carcere, del travestimento psicologico, del cambio di prospettiva (da carceriere a carcerato) è uno spunto ricco di implicazioni e dà avvio a un insieme di avvenimenti che mantengono alta l’attenzione per tutta la prima mezz’ora. A dire il vero già in essa qualcosa non funziona, a cominciare dai pedanti flashback che disegnano la storia d’amore del protagonista con evidente pretestuosità, assolvendo la funzione di giustificare il clamoroso cambio di barricata delle seconda parte. La meccanicità che si impossesserà della pellicola è già presente, dunque, in questi scorci, appena mediata dall’interessante dialettica che si instaura tra schermo e videocamera, interno ed esterno, quello che si dichiara e quello che si pensa, gioco di strategie opposte che è il perno di un film che, attraverso un’operazione consueta al cinema iberico di questi anni, la ricognizione del genere, dà spazio alla riflessione politica, riflettendo sull’inevitabilità dell’assunzione di una posizione autodifensiva che prescinda dagli interessi generali in ballo, quando ci si trova a far parte di una fazione di cui, anche solo per finta, si finisce per interpretare il credo: in questo senso l’autore vira chiaramente su posizioni antagoniste, facendo del Sistema il propugnatore di una salva di inganni e corruzioni e dei detenuti le vittime di questa efferata rete; in questo senso non suona neanche proditorio il tentativo di riflessione sulla TV che insabbia la realtà e che diventa mezzo ribaltabile per dire la verità, compromettendo l’autorità bugiarda. Peccato che il tema venga sviluppato su un ambito narrativo che dimostra uno spregio assoluto del tratteggio dei personaggi e delle situazioni e che questi eccessi finiscano col minare la base solida del film: la storia, che fondava sulla verosimiglianza buona parte del suo potenziale di tensione, diventa lentamente un festival dell’improbabilità che annulla la suspense, inciampando, nel finale, nel ridicolo involontario.

Al quarto film, con il sodale sceneggiatore Jorge Guerricaechevarria (collaboratore anche di Alex De la Iglesia), Monzón ottiene un successo internazionale con un film carcerario che, da un lato, è da manuale, dall’altro sorprende per come travalica il genere con una riflessione sul labile confine che esiste fra le barricate, fra la “spazzatura” della società e le “brave persone”. Non è nuovo il tema dell’infiltrato: non tanto quello con intenti umanitari di Brubaker, bensì quello che popola una lunga serie di film polizieschi dove la talpa istituzionale, infine, lega con i soggetti che deve tradire. Anche la chiusura nel sangue come requisitoria contro i metodi violenti delle istituzioni s’è già vista, (vedi, ad esempio, The Prison di John Frankenheimer). A rendere unica l’opera di Monzón, in realtà, è altro: innanzitutto l’ottima descrizione del legame d’amicizia virile fra Malamadre (uno splendido Luis Tosar), temibile e al contempo leale e questa guardia carceraria che si barcamena abilmente nello sdoppiamento di ruolo e personalità. Poi un’invenzione del copione che, per quanto “pilotata” per incastrare il protagonista (il Caso dovrebbe colpire, appunto, “a caso”: è meno credibile nel momento in cui “prende di mira” qualcuno), è geniale nel favorire il processo d’identificazione dello spettatore e nel dimostrare quanto, potenzialmente, tutti gli esseri umani possano commettere un crimine se (come dice Malamadre) “La vita ti fotte”. Grande anche la regia di Monzón nella direzione degli interpreti, nel ricamo con scene emblematiche da antologia, su tutte quella in cui Malamadre si sobbarca sulla spalla il pianto di “Mutande” e, con un solo sguardo, invita i rivoltosi a fare giustizia.
