TRAMA
Caterina, 13 anni, lascia la natia Montalto di Castro per trasferirsi a Roma con i genitori. L’impatto con la Capitale non sarà facile…
RECENSIONI
Le critiche che si possono muovere a Caterina va in città sono, per così dire, di ordine generale e non particolare, riguardano cioè più il genere a cui il film appartiene (ma che spesso evade e reinventa) che il film stesso. Ci sono infatti alcuni snodi nel dipanarsi della trama che appaiono forzati e dagli intenti drammatici troppo scoperti (il repentino passaggio di Caterina dall’amicizia “alternativa” a quella “mondana”) e non mancano i personaggi dalla caratterizzazione un po’ schematica (o forse sarebbe meglio dire iperbolica), ma tali presunti difetti sono ascrivibili alla volontà di Virzì e Bruni di non abbandonare la tradizione della commedia all’italiana, scherzoso e insieme (spesso) serioso specchio della realtà. Per far da specchio al “reale” e al contempo amaramente divertire, è abbastanza ovvio che nel delineare tipi e situazioni si debba ricorrere a delle griglie di massima che limitano un po’ la possibilità di scrivere sceneggiature dagli sviluppi completamente realistici e popolate da personaggi dalle complesse psicologie “a tutto tondo”. Muovendosi, dunque, all’interno di un genere (nel bene e nel male) è però innegabile che l’ultimo film di Virzì sia un film perfettamente riuscito, che sublima i suoi fisiologici limiti grazie a una sceneggiatura di ferro, una regia attenta e spesso elegante (il cui maggior merito è comunque quello di saper dirigere splendidamente gli attori), ma soprattutto un personaggio principale dalla grazia irresistibile; impossibile non innamorarsi, da subito, della piccola Caterina, tenero e ingenuo angelo col quale si entra immediatamente in empatica sintonia e per il quale si fa il tifo a ogni fotogramma sospinto. Caterina è la purezza, la semplicità ma soprattutto l’innocenza, scheggia soavemente impazzita guardata con (cine)occhio ammirato, che eleva il film al di sopra dei suoi limiti strutturali e lo dota di un’inedita carica poetico-lirica eversiva e quasi surreale, nonché emblema di una lotta di retroguardia che Virzì sembra aver rinunciato a combattere: nel cupo pessimismo del film, che col sorriso sulle labbra dipinge un’Italia terribile e alla deriva (che sa un po’ di “tanto alla fine rossi o neri, tutti uguali”*...), l’unica via di scampo sembra essere quella inconsapevole di Caterina e della madre, personaggi vagamente strampalati ed améliani, entrambi, a modo loro, fuori dalla realtà ma alla fine, forse proprio per questo, inaspettatamente e misteriosamente “pratici”. Una non risposta, quindi, un po’ facile e finanche furba a una visione del Bel Paese che non risparmia niente e nessuno, pericolosamente vicina al qualunquismo (*“ma che siamo, in un film di Alberto Sordi?”...) ma che è difficile non riconoscere come terribilmente ver(itier)a. Finalmente Virzì torna ai fasti di Ovosodo (il gemello eterozigote di Caterina va in città) confermandosi, oltretutto, abile come nessun altro nel raccontare con rispettosa ma impietosa credibilità il troppo spesso frainteso, sparlato, banalizzato mondo dei giovani e, nella fattispecie, dei giovanissimi.
Trascinata in città da un padre dalle frustrate ambizioni letterarie (quando Margherita legge ad alta voce il suo romanzo comprendiamo la ragione delle frustrazioni, ma non il pretesto dell'ambizione), Caterina abbandona tutto quello che conosce, ritrovandosi immersa in un carosello capitolino a base di centri sociali e ritrovi esclusivi, incensi a colazione e canzoni nostalgiche, marce per la pace e bagni di mezzanotte. È di volta in volta abbigliata, truccata, istruita come una perfetta bambola a grandezza naturale, un giocattolo sempre a disposizione di coetanei tanto diversi da risultare penosamente uguali, un corpo senza nome che passa inosservato. Ma un occhio amoroso sorveglia la ragazza, la guida fra le tenebre, la invita a fermarsi e osservare la propria esistenza a distanza di sicurezza, persuadendola (non poi così) indirettamente ad affidarsi senza timore alla musica, unica garanzia possibile de 'la risata final', per citare l'autore che accompagna, in effigie e non solo (il coro di Nabucco), l'esilio romano di Caterina. E se LA FINESTRA DI FRONTE non sarà (forse) che un dolcissimo ricordo, la piccola cantante, finalmente libera da viscide amicizie e gioghi paterni, saprà (ri/)cominciare la propria vita. Se l'intero film di Virzì avesse la spoglia delicatezza del suo epilogo, sarebbe un piccolo gioiello: purtroppo, nell'ora abbondante che precede le sequenze conclusive, il regista si trastulla con macchiette feroci quanto innocue e (in)discutibili strizzate d'occhio (i riferimenti nient'affatto cifrati al milieu politico di centrodestra [1], molto più 'cattivi' - non senza ragione, va riconosciuto - delle stoccate rivolte alla vacua borghesia intellettuale e alla supponente aristocrazia), accatastando situazioni anziché sondarle e trascurando l'efficace pittura d'interni (alla BACI E ABBRACCI) in favore di uno schiamazzato bozzetto d'attualità (alla OVOSODO). Del resto, non è forse il pettegolezzo parastoriografico (le voci televisive e i 'volti noti' che soffocano il diario over di Caterina e intasano il film) la più invadente forma di pornografia?
Commedia amara che sviluppa la sineddoche di Virzì sull’italietta divisa fra destra e sinistra, già affrontata in Ferie d’Agosto. Ma il regista cresce film dopo film: qui è molto più maturo, genuino, sottile e rappresenta il Belpaese come pochi prima di lui (se non nella migliore commedia all’italiana) hanno saputo fare, avvilendola e avvilendoci nel momento in cui adotta lo sguardo “alieno”/provinciale della protagonista, a volte incuriosito, altre basito, per un My Name is Tanino (là il protagonista faceva da io narrante con le e-mail a un amico, qui Caterina scrive un diario) molto più consapevole. Sa raccontare con freschezza gli adolescenti (letteralmente macellati dai vizi dei grandi) e al contempo sfruttarli per mettere in scena il malcostume italiano (la classe di terza media, praticamente, scimmiotta il Parlamento italiano, parola di Virzì). Opera generosa di dettagli e tipi memorabili: il carattere svampito e sottomesso di Margherita Buy, ad esempio, è uno dei migliori della sua carriera.