Arrivare a un verdetto convincente, per quello che è stato il concorso migliore degli ultimi anni, non era scontato proprio per la quantità di titoli papabili e per la loro varietà. Certo The Zone of Interest di Jonathan Glazer è un film che va oltre questa edizione 2023 del Festival, è un’opera epocale (al pari di Under The Skin, che oggi tutti si affannano a celebrare, ma che, all’epoca – chi scrive lo ricorda benissimo – ebbe un’accoglienza tutt’altro che trionfale). The Zone of Interest, tratto (liberamente è dir poco) dall’omonimo romanzo di Martin Amis (lo scrittore inglese è scomparso qualche giorno dopo la prima cannense), osserva la quotidianità del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, e di sua moglie Hedwig: quadri di vita familiare ambientati in una bella casa con giardino che confina col campo di sterminio. Per il suo carattere sperimentale, per la radicalità dell’approccio, per le (in)evitabili discussioni morali che innesca (ne parleremo a suo tempo), il film si prestava poco a un accordo compatto in seno alla giuria. Il Gran Premio della Giuria sembra quindi un buon compromesso: è un riconoscimento prestigioso, non sminuisce la rilevanza dell’opera, statuisce la sua problematicità. Del resto la stessa accoglienza della stampa testimonia la divisione: entusiasmo di molte testate (la maggior parte), ma anche no secchi (rogerebert.com, non proprio un interlocutore irrilevante; in Francia Libération).
Che i consensi si stessero concentrando sul film di Justine Triet è cosa che si è detta subito. La regista è una habituée di Cannes dove ha presentato (stante il suo folgorante debutto La Bataille de Solférino, 2013), Tutti gli uomini di Victoria (apertura alla Semaine 2016), e il vertiginoso, bellissimo Sibyl (2019, in concorso), due ritratti al femminile (entrambi con Virginie Efira) di scrittura precisissima, in cui il retrogusto brillante non vela mai gli abissi di disperazione che le storie narrate spalancano. Anatomie d’une chute è dunque solo la conferma di un talento che trova con la Palma il definitivo, meritato riconoscimento. E un titolo che, dietro la sua apparenza di film procedurale (una morte sospetta – omicidio o suicidio? -, la moglie della vittima sotto processo), fa emergere un nuovo sfumatissimo profilo di donna (Sandra Hüller – interprete anche del film di Glazer – era da premio) come contrappunto alla dissezione di un rapporto di coppia. Nel mezzo un figlio undicenne, non vedente (circostanza significativa a più livelli). Lo specchio delle reazioni della stampa (molto positive) riflette con tutta probabilità quelle della giuria. E quella dello stesso presidente Ruben Östlund: la limpidezza registica con la quale questa storia ambigua viene condotta, siamo sicuri, non lo ha lasciato indifferente.
In questa sede di commento veloce, il mio entusiasmo per il premio alla regia a Trần Anh Hùng, autore che dopo uno strepitoso inizio di carriera (l’opera prima Il profumo della papaya verde fu Camera d’or in Croisette, Cyclo Leone d’oro a Venezia) è rimasto piuttosto in ombra negli ultimi anni, complici lavori non sempre convincenti. Il suo La Passion de Dodin Bouffant – pericolosissimo ibrido tra spirito (e ritmo) orientale e ambientazione d’epoca francese – è un film incantevole sul quale (scommettiamo?) molta tiepida critica (italiana, soprattutto) farà marcia indietro al momento dell’uscita. La mezz’ora iniziale, tutta ambientata nella cucina dei protagonisti – Benoît Magimel (non abbiamo più aggettivi) e Juliette Binoche – intenti a preparare un banchetto, è un’esperienza immersiva che basterebbe da sola a legittimare il premio. Ma nel film c’è tanto altro. Ovviamente, ne scriveremo.
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