TRAMA
Una baruffa tra due ragazzini undicenni porta all’incontro dei rispettivi genitori per risolvere la faccenda.
RECENSIONI
La drammaturga francese Yasmina Reza (autrice di Art, tra le opere teatrali più celebrate dell’ultimo ventennio, gioco dialettico a tre - a, r, t - di intelligenza sopraffina in cui tutto veniva in discussione – intellettualismo di sostanza & vacuo, amicizia vera & di convenienza, dolore provato & inscenato, arte & spazzatura, riso & pianto - alla presenza ineludibile di una tela innegabilmente bianca che assorbiva e faceva rimbalzare l’incasinato arzigogolo verbale dei protagonisti) doveva prima o poi incrociare la strada di Polanski che delle dinamiche in atto in certe trappole per topi, effettive o metaforiche, ha fatto una poetica.
La zuffa tra due adolescenti conduce i genitori all’incontro coatto: la cortesia, la gentilezza, l’ansia di collaborare nascondono infatti il cieco orgoglio ferino di una (finta) civiltà, quella occidentale, pronta a scannarsi in nome delle proprie ragioni e convenienze.
Le due coppie si mostrano dunque urbane, come il senso della collettività richiede, ma la loro è tutta apparenza; i Cowen e i Longstreet sono fintamente evoluti, il loro eloquio, il loro incrociar di spade retoriche non arginano affatto la primaria pulsione, le loro intime contraddizioni di persone fintamente conciliate: la consapevolezza che la questione sia una resa dei conti sotto mentite spoglie brilla nella coscienza di ciascuno dei protagonisti.
La borghesia insomma non rinnega la violenza, la reprime, è un’arma disinnescata che fa presto ad oliare e a rimettere in azione non appena il salotto perbenista - spazio scenico chiaramente delimitato che si afferma come territorio da gestire, da difendere o invadere a seconda dei punti di vista - richiede un’affondar di unghie. L’onore non è un credo, ma una maschera da indossare poiché “richiede un contesto sociale”, le parole sono coltelli, con esse si guadagna terreno (il vomito, come lancio di pece bollente in battaglia, lo marca – il catalogo di Kokoschka come obiettivo strategico da colpire, per rispondere alla pretesa superiorità culturale -; il cellulare che squilla, invasivo) valendo, più che quel che viene detto, tutto quello che non viene pronunciato, ma alluso, sottinteso e infine agito. Nella stessa casa si apprezza la pittura di Bacon ma non si esita a mandare un criceto a morire, l’attivismo politico salva prima la coscienza di chi lo predica e poi (forse) il Darfur: Penelope dimostra intolleranza talebana nei confronti di tutti coloro che non sono impegnati quanto lei, il marito è finto complice dell’impegno della consorte, avendo come credo reale il buon liquore; Nancy insiste, a mò di mantra, sulla naturalezza, consapevole di essere artefatta, timorosa che ciò si palesi anche agli occhi di un consorte disinteressato a tutto, tranne che ai propri affari.
Ma la guerra è imprevedibile nei suoi esiti e i tradimenti occhieggiano dietro l’angolo: così i due fronti contrapposti si disuniscono e si rimescolano, dal momento che il conflitto è barbarico e dilaniante anche per le singole coppie che, inesorabilmente, implodono, fiaccate esse stesse dalle diverse ipocrisie in campo, dalla completa irresponsabilità che sostanzia il loro discorrere. Le alleanze imprevedibilmente cambiano, le barricate si fanno sessuali, la lotta diventa senza quartiere: l’ipocrita messa in scena civile è definitivamente svelata (Nancy Cowen si sfila le scarpe, sancendo il definitivo palesarsi dell’infingimento sociale), l’inibizione resta un lontano ricordo.
Il finale, tuttavia, sembra speranzoso: nel parco del misfatto la carneficina appare evitata, il criceto dei coniugi Longstreet vagola vivo e vegeto e i due ragazzini-cuccioli giocano, dimentichi di un evento degradato a fattaccio dai genitori, belve feroci. E’ una chiusa che ricorda moltissimo quella di Niente da nascondere di Haneke sia nella dinamica (lo sguardo distanziato sul luogo, più che sui soggetti) che nel significato (i ragazzi individuano con naturalezza un terreno comune da condividere, comunicano senza filtri, svelano l’ipocrisia borghese che li ha usati e le soffocanti sovrastrutture che la governano).
Polanski gestisce il tempo reale (il minutaggio del film rispetta l’unità di tempo) e la scena con la consueta maestria (ha preteso che le prove si svolgessero come sul palco, con gli attori alle prese con l’intero copione), tira fuori il meglio dal sublime quartetto d’interpreti (Christoph Waltz la spunta di misura), traduce e cosceneggia con la Reza la brillante pièce in odor di Albee, consegna un lavoro finissimo, satirico e ricco di sfumature, ma in cui i meriti del testo (forse un tantinello artificioso nel suo coinvolgere, a tappe metaforiche forzate, tanti nodi della contemporaneità, quasi manipolando i caratteri a tale scopo), sono evidentemente di spicco, rispetto alla professionale direzione. Un film-chicca che si gode dal primo all’ultimo minuto, che non aggiunge nulla alla filmografia dell’autore (il precedente L’uomo nell’ombra vantava tutt’altra caratura), ma che si accoglie volentieri quale attestato di una vivacità creativa confortante.
Chi ha Paura di Virginia Woolf? (quattro personaggi che si dilaniano) in chiave più ironica. Vero e proprio gioco al massacro tratto da “Il dio della carneficina” della commediografa Yasmina Reza (anche sceneggiatrice): lo psicodramma fra quattro mura, con un climax implacabile, massacra anche il perbenismo di facciata della classe borghese, con sottigliezze feroci sull’ipocrisia, la repressione della violenza e la falsità, per arrivare poi, catartico, all’esplosione della seconda parte, in cui si ride di gusto (masochistico) per la matrice grottesca. La bravura di Polanski, che gioca con siffatte traiettorie sin da Il Coltello nell'Acqua, si esplicita, principalmente, nella direzione degli attori, perno focale del kammerspiel, ma non sono da meno certe soluzioni stilistiche che contornano la pentola in ebollizione: vedere il prologo e l’epilogo, con la macchina da presa fissa sul parco dove avviene il misfatto (con beffa finale fra criceto e pace dei contendenti) o la trovata geniale con cui i genitori ospiti finiscono sempre per rientrare, per un motivo o per l’altro, nell’appartamento che hanno lasciato (fattore che crea frustrazione immane: nello spettatore, come nei personaggi, si disattende continuamente la fine di un “round”). Anche quando uno dei quattro contendenti pare conquistare la ragionevolezza non-violenta, in campo c’è sempre un elemento, anche il più insignificante, cui aggrapparsi per vomitare (letteralmente) tutta la propria rabbia. La lite fra figli è solo un pretesto colto al volo dalle coppie per distruggersi anche al proprio interno. L’interprete fenomenale in campo è Cristoph Waltz, nel ruolo di un avvocato cinico e serafico, impassibile ed indifferente cui gli autori riservano la battuta del titolo, sul dio del massacro che governa il mondo, e la maggiore simpatia: è il personaggio meno falso, per quanto terribile.