
TRAMA
Anni ’30: Bobby vive a New York, con la sua famiglia ebrea, e decide di partire per Los Angeles in cerca di fortuna. Si rivolge allo zio Phil Stern, che lavora nell’industria cinematografica.
RECENSIONI
Café Society è una commedia romantica americana del 1939, diretta dal E. H. Griffith (da non confondere con D.W.) e adesso è anche una commedia romantica americana di Woody Allen, ambientata negli anni ’30. Si potrebbe iniziare constatando l’ovvio, ossia che Café Society (quello del 2016) è un omaggio alla Hollywood del pre Seconda Guerra Mondiale, a quelle commedie lì, a registi come Gregory La Cava, Frank Capra o Ernst Lubitsch. Un approccio nostalgico non certo nuovo, nella filmografia di Allen, e basterà citare a puro titolo di esempio La Rosa Purpurea del Cairo o Radio Days per togliersi il dente. Il protagonista è l’ennesimo alter ego di Woody, che gesticola e balbetta esattamente come lui, anche se forse era dai tempi del Branagh di Celebrity che non si vedeva una mimesi così mimetica. Al centro della vicenda c’è un triangolo amoroso (ovvio topos del cinema americano) fatto di casualità, incroci, indecisioni, ritorni e ripartenze, come da tradizione alleniana (Provaci ancora Sam – è di Herbert Ross scritto da Allen, si sa -, Manhattan o Crimini e Misfatti solo per fare qualche noto nome di comodo). Poi c’è il font dei titoli, la musica jazz, New York, la famiglia/comicità ebraica, i gangster “da film”, lo humour riconoscibile fino all’autoplagio (un po’ svogliato, a dirla tutta). E qualche accenno tematico serio, primo fra tutti quello che riguarda la possibilità di convivere con la Colpa, come da – di nuovo - Crimini e Misfatti e il suo gemello diverso Match Point.
Non mancano nemmeno i consueti motivi di interesse, tipo la fotografia di Storaro (è il primo film che Allen gira in digitale), con l’utilizzo della luce nella parte losangelesiana che è puro manierismo antinaturalistico, illuminazione californiana in provetta, eterno ritorno alla meta-finzione, al set sul set, al cinema nel cinema. E anche qui non è che ci stiamo smarcando dal déjà vu stratificato, se proprio vogliamo dirla tutta. Rimane da constatare la consueta bravura di Allen nel dirigere gli attori (forse è proprio Eisenberg l’anello debole del cast) e poi ci sembra di aver detto più o meno tutto. Tranne una cosa: com’è l’ultimo film di Woody Allen? Anche volendo sottrarsi all’ozioso balletto che in genere accompagna l’appuntamento annuale col regista newyorkese (“è leggermente migliore dell’ultimo, sicuramente inferiore al penultimo, di poco superiore al terzultimo, nettamente preferibile al quartultimo anche se il sestultimo rimane il più bello degli ultimi nove anni”), la risposta non è affatto immediata. Un po’ perché, se lo chiedete a me, una recensione non dovrebbe dire com’è il film quanto cos’è. Un po’ perché: dipende dall’allenianità e dalla benevolenza dello spettatore. Se è vero che “il solito film di Woody Allen” è una definizione superficiale quanto odiosa, è altrettanto vero che, specie per chi Allen lo conosce bene (e lo ha molto amato) è difficile non cedere al comodo richiamo della pigrizia intellettuale. E allora, Café Society ci è sembrato davvero “il solito film (modulare) di Woody Allen”, un po’ stanco e ripetitivo, complessivamente gradevole quanto potenzialmente soporifero.
