TRAMA
Martha e Kyle lavorano in una fabbrica di bambole e sono amici. Il loro rapporto è turbato dall’arrivo di una nuova operaia, Rose, una ragazza madre.
RECENSIONI
Scelta antihollywoodiana per Soderbergh che con BUBBLE - si pensi anche agli ultimi lavori di Van Sant - opta per un’opera a basso costo che negli USA vedrà la contemporanea uscita in sala, sul satellite e in DVD (sono previsti altri cinque film con medesime caratteristiche distributive). Lontano dalle major il regista trova la strada di un racconto minimale assai preciso in cui caratteri ben disegnati affogano nello statico tran tran della squallida provincia industriale; nessuno dei rapporti umani descritti nel film è sano: Martha nutre un’amicizia morbosa per Kyle, Rose avvicina Kyle ma alla prima occasione lo deruba, Kyle usa Martha per poter uscire con Rose, Martha guarda Rose con sospetto ritenendola una persona ambigua e pericolosa; i personaggi non hanno nulla a parte le loro abitudini e, narcotizzati dalla coazione a ripetere che li imprigiona, arrivano a concepire o accettare l’orrore, fino alla tragedia finale.
Interpretato da attori non professionisti residenti nella provincia dell’Ohio in cui il film è ambientato, girato in tempo record, BUBBLE è un’opera semplice e priva di fronzoli: lo sguardo nudo di Soderbergh, lontano dal dollaro e dalle teorie, centra l’obiettivo.
Storia di Ordinaria Follia
Regista discontinuo ma dall'apprezzabile spirito sperimentatore, Steven Soderbergh, con "Bubble", sfida l'industria del cinema con grande coraggio. Prima di tutto perché aggira le più che assodate logiche distributive facendo uscire il suo film in contemporanea nelle sale, in dvd e sulle pay-tv. In secondo luogo perché compie questo passo con una piccola opera tutt'altro che commerciale e priva di qualsiasi appeal. La sfida, almeno dal punto di vista stilistico, è vinta (e probabilmente anche il piano economico non languirà, visti i costi contenuti). Alla base dell'esperimento c'è una storia tanto semplice quanto disturbante. In una piccola cittadina dell'Ohio, all'interno di una fabbrica di bambole, l'equilibrio tra due colleghi di lavoro, un giovane e una signora, viene turbato dall'arrivo di una ragazza madre. A coinvolgere non è tanto la struttura "gialla" del racconto, quanto la sottile capacità del regista di connotare alla perfezione l'ambiente teatro della vicenda e la deriva dei personaggi. Nessuna star alla catena di montaggio, ma facce comuni alle prese con una quotidianità dall'andamento lento devastante. Una placida routine in cui sonnecchia la tragedia di un vuoto interiore incolmabile. In questo senso la provincia americana ne esce a pezzi ed è proprio nei silenzi, riempiti perlopiù da rumori di ambiente, negli scambi monosillabici durante la pausa pranzo o in una serata al pub davanti a una birra, diciamo nell'assenza di eventi significativi, che Soderbergh riesce a esplicitare con forza l'alienazione di una vita priva di stimoli, in cui le giornate si succedono per inerzia e davvero nulla sembra in grado di scalfire l'emotività. Un mondo senza punti di riferimento, con variabili impazzite, in cui uccidere può diventare una scelta tanto semplice quanto obbligata. Finalmente il supporto digitale esce dal vezzo della sgranatura a tutti i costi dimostrando che un'alternativa alla pellicola, senza eccessive differenze qualitative, è possibile. La sceneggiatura è ben strutturata e gli interpreti, tutti attori non professionisti reclutati sul posto, hanno le facce giuste per rendere credibile la destabilizzante vicenda.
Sguardo fisso
Quando ormai, lo ammettiamo, la speranza era perduta ecco il ritorno di Soderbergh in ottima forma: il regista, che ormai pareva consacrato all’industry, gira un film a basso costo con stupendi volti dalla strada, rimesta nel fango della provincia americana evocando lo straniamento di TWIN PEAKS, sceglie una storia scabrosa portandola sino in fondo senza timore di inorridire. BUBBLE è uno gnomo per lo standard del regista: durata minima, spettacolarità zero, trovate semplici ma efficaci nella loro infinita inquietudine (la fabbrica delle bambole). La devianza, il tunnel dell’infermità mentale non fa paura all’autore, che dimostra di saper (ancora) fare cinema servendosi di una messinscena ghiaccia e disadorna; seppur l’appoggio è il solito scabroso triangolo sentimentale l’opera spalanca gli occhi come lo sguardo fisso di Martha (Debbie Doebereiner, uno splendido mostro) e li punta dritti nell’abisso. Sullo sfondo: uno straordinario rigore formale racconta l’America dell’incomunicabilità, attraverso piani fissi quasi interminabili, in bilico tra Gus Van Sant e l’accelerazione rock decadente. Come folle film sulla follia BUBBLE, scomodo vicino della porta accanto, si rivela in assoluto la prova migliore dell’americano.
Bolla di ribellione
L’anticonformista Soderbergh, forte dell’esperienza “docu-drama” delle serie Tv “K-street” e “Unscripted”, decide di lasciare alle spalle i big-budget-movie carichi di star per girare un’opera minimalista, a bassissimo costo e con attori non professionisti. Ri-affitta la sceneggiatrice di Full Frontal e persegue il progetto di destrutturazione delle codificazioni cinematografiche, sia linguistiche (alla Godard) sia di “status”, dove, raggiunto il successo, solo un flop al botteghino costringe a ricominciare da capo. Per Soderbergh i modi di produzione devono piegarsi allo stile che il racconto da filmare esige, non importa in quale alto gradino della scala sociale della Mecca del Cinema il regista è riuscito ad arrivare. Ecco allora un piccolo squarcio sulla provincia americana mai vista (sofferente di povertà e solitudine: un sottotesto senza urla loachiane), girato in tre settimane, in digitale (e con quali meravigliosi risultati di fotografia), più vero del vero (gli interpreti prestano le loro dimore come set), improvvisato (anche troppo: qualche dialogo risacca, qualche reazione emotiva sbava) ma, sempre per non cadere in uno schema da film (neo)realistico (a Soderbergh non piacciono i percorsi obbligati), accompagnato anche da sprazzi surreali (gli spot sul volto della protagonista) e (r)accordi lirici (la chitarra permeativa di Robert Pollard) e/o incuriositi (dalla lavorazione delle bambole), amplificati (i rumori di fondo). Si sconfina nel thriller (prevedibile nel “giallo” perché a Soderbergh interessa rimarcare il fattore di cosciente innocenza e incosciente violenza) dove criminale è l’implosione, la mentalità tutta americana che si santifica (l’areola) mentre nega d’essere capace di fare del male. Sempre nell’ottica di rivoluzionare il sistema produttivo, Soderbergh ha fatto uscire la sua “bolla” (la provincia) di ribellione (al Sistema-Cinema) contemporaneamente al cinema, su Pay-Tv e in Dvd.
La focalizzazione, come è noto, è un procedimento narrativo che consiste nel fornire al lettore una quantità di sapere pari (focalizzazione interna) o inferiore (focalizzazione esterna) a quella posseduta da un personaggio. Genette la definisce “una restrizione di «campo», una selezione dell’informazione narrativa rispetto alla cosiddetta onniscienza della tradizione (…)”. In realtà, per il cinema sarebbe più appropriato parlare di ocularizzazione (François Jost) - o, ancora meglio, di polarizzazione (André Gardies) – ma, per evitare insopportabili accademismi, ci accontentiamo dell’arcinota categoria genettiana. Anche perché ci permette di tirare in ballo un’altra nozione, questa meno logora e abusata, dello studioso francese: quella della parallissi, ovvero la “ritenzione di un’informazione logicamente portata con sé” dal partito modale dominante del racconto. Detto altrimenti, se un racconto è in focalizzazione interna, l’omissione di un fatto noto al personaggio sul quale il racconto è focalizzato costituisce parallissi. La premessa di ordine narratologico è meno inessenziale di quanto possa sembrare, poiché aiuta ad affrontare l’ultimo film di Steven Soderbergh secondo le coordinate più adatte: quelle del meccanismo narrativo. Film ad altissimo rischio di sopravvalutazione, Bubble risulta infatti costruito interamente sui procedimenti menzionati. Sapientemente - occorre aggiungere - ma in maniera sostanzialmente convenzionale: Soderbergh concatena blocchi di racconto in focalizzazione interna variabile (il racconto è focalizzato ora sul personaggio di Kyle, ora su quello di Martha) fino all’omicidio di Rose. Qui opera una parallissi, omettendo l’informazione essenziale che dovrebbe essere garantita dal partito modale adottato dal racconto. Parallissi su focalizzazione interna variabile: ecco la formula con la quale il cineasta americano fabbrica il suo piccolo film (basso costo e bassa durata: soli 73’), dimostrandosi ancora una volta scaltro manipolatore dell’industria dello spettacolo e abile confezionatore di prodotti audiovisivi. Non si parli di opera sperimentale, ché di sperimentale in Bubble non c’è traccia alcuna: l’uso di attori presi dalla strada e tenuti all’oscuro dello sviluppo narrativo non è certo una novità, il montaggio a pseudojump-cut è la cifra soderberghiana per eccellenza e il ricorso al digitale in chiave antispettacolare e semidocumentaristica è già stato enunciato e praticato negli USA dal progetto InDigEnt (di cui giova ricordare l’interessante Tape (2001) di Richard Linklater, tratto da un dramma teatrale di Stephen Belber). La caratterizzazione dei personaggi e la definizione dei loro rapporti risentono di un analogo schematismo: Martha l’obesa morbosa e Kyle il ragazzo sensibile sono amiconi; l’arrivo della graziosa e sfacciata Rose manderà tutto a gambe all’aria. Anche sul piano allegorico, il film non sembra andare al di là della programmaticità e della inconseguente dichiarazione d’intenti. Esemplare in questo senso la prima inquadratura del film: la benna di una ruspa affonda nel terreno molliccio di un cimitero. Il senso è fin troppo chiaro: questo film scaverà nel pantano della provincia americana, mostrandone la miseria morale, lo squallore e l’orrore. Esiste modo più meccanico di produrre senso con le immagini?