Commedia

BROKEN FLOWERS

Titolo OriginaleBroken Flowers
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2005
Genere
Durata106'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Don Johnston, eterno scapolo appena lasciato dall’ennesima fidanzata, riceve una lettera misteriosa.

RECENSIONI

Il ticchettio di una macchina da scrivere, oscuro orologio che ferma e riavvolge il nastro del tempo. Una lettera viene imbucata: ne seguiamo il percorso, tappa dopo tappa (un prologo hitchcockiano), fino all’indirizzo del protagonista, casanova decaduto stancamente narciso (la sua compagna sta per andarsene e lui guarda – per l’ennesima volta, senza dubbio – il DON JUAN di Korda). Don scopre di avere avuto da una delle sue fiamme (chissà quale) un figlio, ormai ventenne, che lo sta cercando. Don Giovanni individua la nebulosa possibilità di una seconda giovinezza, di un affetto rigenerato: diventa Faust, inizia un pellegrinaggio. Don pedina i fantasmi del passato, sperando di essere a sua volta pedinato (le frequenti immagini dello specchietto retrovisore), ma non trova che un mondo di donne tenere e feroci, vendicative e devastate, un gineceo nutrito di letteratura (la ninfa e la ninfetta, l’interprete e lo Stregatto), popolato da creature che non esistono più o che possono esistere soltanto come fantasticheria (non casualmente il bouquet più sontuoso finisce su una lapide). Don, spettatore della vita (l’inquadratura che lo mostra di spalle al balcone, intento a osservare il traffico nella luce livida dell’alba), sa di avere poche speranze di chiudere felicemente la propria caccia all’uomo, ma non può accettarlo: è pronto a pagare con l’isolamento (la follia?) un momento di paternità (l’ultimo viandante, nella sua fugacità, richiama la sagoma indefinita con cui si chiude SOTTO LA SABBIA di Ozon). Jarmusch affronta la tragedia di Don con spirito lieve e limpida malizia, optando per una regia essenziale che mette in primo piano l’irreprensibile prova del cast (Murray è il solito prodigio di sfumature, ma le sue ragazze – su tutte una difficilmente riconoscibile Swinton – non sono meno impressionanti). Incantevole miniatura.

Straordinaria prova di Jarmusch che, dietro il gentile sembiante della commedia, posa un occhio inumidito sulla disperata solitudine dell’uomo: malgrado un attacco vagamente compiaciuto (il DON GIOVANNI passa in Tv) il cineasta aggira dolcemente la truffa del film murraycentrico – un vero e proprio genere, ultimamente – e dirige uno straziante concerto di spettri. Donne, che il protagonista reincontra dopo anni, già morte (in un caso letterale) che risorgono fugacemente per incrociare appena il suo binario e perdersi per sempre; seppure una galleria di caratteri, inchinata alle ragioni di quattro grandi attrici, questa è tanto intimamente acuta da suonare le corde del cuore (il devastante duetto Murray-Stone rimane dentro), formando elegantemente un brumoso tramonto senza speranza. Nostalgia, rigidità, ostilità o semplicemente follia: il viaggio di Don attraverso quattro tipi/topoi s’infiltra nelle sezioni dell’anima, singole parti di sé stesso, lucidando l’albo dei ricordi con la scarna petulanza del fallito. La sua ossessione femminile, gli umori travolgenti sopiti dalla maschera facciale, frammenti sparsi di memorie sono resi da Jarmusch con lucida ironia, rigirando senza tregua il coltello nella piaga (il cromatismo simbolico si fissa sul rosa), tirando misteriosamente le fila negli spaccati onirici splendidi e sfuggenti. La clamorosa sequenza finale, un colloquio beckettiano che dice della suprema maestria dell’autore – in un film tematicamente affine a DON’T COME KNOCKING di Wenders è ormai palese l’abisso fra i due (basti il diverso impiego della Lange) -, cala per rammentare che il cuore della vita umana è il disordine. Nessuno sguardo indietro porterà una goccia d’acqua a fiori da tempo appassiti.

Che l'importante non sia il punto di arrivo ma il viaggio sarà anche vero. Il problema del film di Jim Jarmusch è che l'on the road dell'uomo in visita ai vecchi amori, per trovare la madre del figlio che non sapeva di avere, potrebbe non finire mai oppure esaurirsi dopo pochi minuti. In ogni caso, non regge le due ore di proiezione. Anche perché ci si trova costretti a subire i non così coinvolgenti crucci esistenziali (silenzio e immobilità) di un ex dongiovanni miliardario. Certo, le dinamiche umane imbastite nella sceneggiatura sono universali, il bilancio di una vita può pesare indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, ma l'ennesimo uomo arrivato, che si ritrova solo e depresso a passare intere giornate davanti a un enorme schermo al plasma, non offre così tanti spunti di interesse. E nemmeno di riflessione. Di lui sappiamo poco. La rogna è che non vorremmo saperne di più. Non aiuta lo sguardo catatonico di Bill Murray (improbabile sciupafemmine), che da quando ha trovato il successo smettendo di recitare ("Lost in translation") non molla più la faccia sorniona e l'espressione di forzato distacco. Il suo fiacco vagare per un'America ben lontana dal sogno si fa spesso allusivo, ma le cinque tappe della sua via crucis non illuminano granché. La provincia poco allegra e i matrimoni infelici sono cose risapute. Non basta un approccio fintamente spontaneo per rendere la casualità della vita. Un calcolo è sempre evidente e tutti gli episodi, pur nella diversità dei caratteri femminili, finiscono per uniformarsi a una regia che impone il grottesco anche dove, magari, la vita avrebbe scelto altrimenti. Un minimalismo che si fa maniera affidandosi a un andamento stralunato tutt'altro che genuino. Poi, per carità, l'insieme è piacevole, la sfilata di attrici brave e belle allieta occhi e spirito, le professioni dei personaggi femminili (ordinatrice di armadi, comunicatrice animale) sono esilaranti e la colonna sonora "etiope" è strepitosa, ma la sensazione di una verità profonda celata dietro all'apparente vacuità di gesti quotidiani diventa ingombrante e finisce per prendere il sopravvento. Invece, a volte, il poco è poco. E resta tale.