
TRAMA
Scozia, fra il XIII e il XIV secolo: il prode William Wallace guida la ribellione contro gli inglesi.
RECENSIONI
Che cosa dire del kolossal di Mel Gibson che non sia già stato detto del popcorn? A parte gli scherzi, “Braveheart” è un solido, rispettabilissimo polpettone, confezionato con indiscutibile perizia.
Questo spettacolo – fiume, eccessivo in ogni aspetto, dalla lunghezza propriamente biblica (si sfiorano le tre ore) alla recitazione “generosa” fino ai confini del birignao, ripercorre, anche nella struttura, la parabola umana e politica del suo protagonista. La prima parte si occupa della vita “privata” di Wallace, dall’infanzia un po’ dickensiana all’amore per una fanciulla (un’acerba McCormack), vittima innocente dell’ennesima violenza perpetrata dagli invasori stranieri. A questo punto i toni fiabeschi e manierati che caratterizzano quest’elegia delle Highlands, scolpite con grande sagacia da John Toll, trascolorano direttamente nella più robusta retorica di stampo hollywoodiano.
Le scene di battaglia, numerosissime (anche troppo), presentano un ritmo incalzante e molte intuizioni visive: l’insieme, potenzialmente arrabattato, rispecchia con efficacia il clima febbrile degli scontri. Certo, ogni volta che i personaggi aprono bocca, è una sequela quasi insopportabile di luoghi comuni, sproloqui moraleggianti e slogan urlati a piena gola, difficilmente distinguibili dalle note di una colonna sonora a dir poco bandistica, e la presenza di Sophie Marceau (bella ed elegante, ma espressiva al pari di un frullatore con la spina staccata), più che un ornamento, è un dannoso orpello. La conclusione, una vera Passione di William (rinnegato dagli infingardi compatrioti) secondo Mel, è una suite di quadri stereotipati, ma ha dalla sua una forza autentica che deriva dall’assoluta mancanza di pudori, mezze misure, e perché no, senso del ridicolo.
Progetto ambizioso, tagliato su misura per un Gibson primadonna ed innegabilmente a suo agio in questo ruolo di uomo – ordinario – eroe – suo – malgrado, “Braveheart” è il compendio del meglio e del peggio (più il primo che il secondo, ad essere onesti) di un cinema roboante con l’anima, che ama commuovere lo spettatore e tenta di evitare il più possibile il pensiero, che, come si sa, ritarda l’azione. Se non altro, c’è almeno il cuore: quando sparirà anche quello, arriverà “Il Patriota”. Comunque sia, avremo sempre Parigi, oltre alle citazioni satiriche, come quella, folgorante, targata Simpson (“Non potranno mai toglierci la libertà… di bere!”).

Come Kevin Costner con Balla coi Lupi, un altro divo sex symbol centra il cuore impavido del cinema hollywoodiano classico, lo ripropone ad Arte e viene incensato dagli Oscar. L’opera è un kolossal con il dono della capacità di saper sfruttare ogni singolo elemento a disposizione in modo encomiabile: la ricostruzione storica (imprecisioni a parte), i paesaggi verdi e umidi della Scozia (Irlanda, in realtà), la fotografia color fuoco (della battaglia, della passione epica). Gibson regista sa anche cavalcare il romanticismo sentimentale, sa come sottolineare l’emozione forte, infuocarsi in virulenti e splendide battaglie, insanguinate e infangate come nell’Enrico V di Kenneth Branagh, potenti come quelle dell’Enrico V di Laurence Olivier, mastodontiche e dotate di appassionanti tattiche belliche come nel Waterloo di Bondarciuk. La “guerra” è senz’altro la componente più genuina ed ingegnosa, impressionante per dispiego di masse (con l’ausilio degli effetti digitali) e per stile di regia, che gira e monta in modo “classico” per poi sporcare nel post-moderno con dettagli splatter e violenza disturbante. Il resto tocca corde “facili” (quanto efficaci) per coinvolgere lo spettatore, con meccanismi ammiccanti e stereotipati nell’ambito della commedia (ma la scena dei “culi” al nemico è uno spasso), del sentimento (i violini di James Horner straripano), delle coordinate del racconto in sé (passaggi alla Robin Hood: c’è anche un “Little John”; alla Highlander: lo zio di Wallace ricorda il Sean Connery di McCloud/Lambert). Gibson e soci ri-mescolano situazioni canoniche del romanzo d’avventura, con villain cattivissimi ed eroi senza macchia (e invincibili), l’idillio che è sempre un preludio alla tragedia e psicologie sacrificate a favore della commozione, dei messaggi altisonanti, del pathos confezionato ad arte. L’ideale della libertà, della massa protagonista a scapito dell’elite, la condanna dei compromessi del potere politico, l’esaltazione dell’idealismo dei puri di cuore, poi, sono autoreferenziali in un paese che “ruba” spesso brani di storia altrui per riproporli secondo il proprio Credo (gli scozzesi sono gli americani che si ribellarono agli inglesi). Costner è senz’altro più raffinato, può definirsi un buon regista anche senza l’ausilio dell’opulenza visiva e del violino prodotto in serie ma Gibson sa fare un cinema “maschio”, “guerriero” ed è senz’altro più espressivo e carico come attore. Tre ore che non pesano e almeno un “tonfo al cuore” impossibile da dimenticare: il grido di libertà di Wallace nel finale che fa strabuzzare gli occhi al re.
