
TRAMA
Un figlio che non voleva più avere niente a che fare con suo padre, è costretto ad aiutarlo a mandare avanti il ranch di famiglia dopo che questi si è fratturato alcune ossa. I due si ritrovano per addestrare un cavallo recalcitrante e portarlo a vincere una competizione di cross-country, ma allo stesso tempo provano a sciogliere quel grumo di rabbia, ostilità, rancore, che ha impedito loro per tanto tempo di essere vicini.
RECENSIONI
Stout as a horse, affectionate, haughty, electrical,
I and this mystery here we stand.
Walt Whitman
Una quindicina di anni fa Alan Bennett pubblicò un romanzo breve, che in Italia è uscito per Adelphi con il titolo di La sovrana lettrice. La storia è semplice e narrata con l’effervescenza e lo wit tipici dell’autore (e sceneggiatore e drammaturgo e attore) britannico: all’improvviso, per un incidente causato dai suoi welsh corgi, Elisabetta II scopre il piacere della lettura; la sua esistenza, scandita da ritmi ferrei e da cerimoniali tutti identici, prende così una piega inaspettata. A un certo punto, la sovrana si ferma a riflettere sul disagio che avverte nell’esternare ciò che intimamente sente e, come è ovvio, è un libro, una tragedia shakespeariana nella fattispecie, a fornirle le parole giuste. Bennett scrive: «La regina scrisse sul suo taccuino: «anche se Shakespeare non lo capisco sempre, quando Cordelia dice “non riesco a trarre il cuore in bocca” condivido appieno il suo sentimento. Il suo problema è il mio.»
Brado, terza prova registica di Kim Rossi Stuart, è un lavoro nel quale i protagonisti, uno interpretato dallo stesso Rossi Stuart e l’altro dal giovane e promettente Saul Nanni, “non riescono a trarre il cuore in bocca”, ovvero non riescono a esprimere a parole – o lo fanno malissimo – la profondità dei sentimenti che provano. Il regista e attore, conscio della valenza universale del proprio racconto, sceglie un’ambientazione in un certo senso esotica, e un genere che, pur restando ancorato all’impianto drammatico, sembra voler rappresentare anche una visione altra – un’alterità indiscreta – rispetto alla classicità nostrana di una vicenda familiare – di conflitti familiari – come questa. Il maneggio, ragione di vita di Renato, è la raffigurazione in chiave emotivo-simbolica delle istanze dei personaggi; infatti è un luogo che sembra disabitato, senza clienti, tranne una, fantasmatico come se fosse stato partorito dall’alienazione di Edgar Allan Poe più che dai connotati di nichilismo apocalittico della penna di McCarthy. Tutti, cavalli ed esseri umani, rappresentano una sorta di contraddizione in termini: sono dei bradi in cattività. Chi senza possibilità di scelta e chi… il film non ce lo rivela, rinunciando con intelligenza al moralismo che vorrebbe l’instaurazione delle controparti. Anche perché la dinamica oppositiva che si instaura tra Renato e Tommaso, suo figlio, in un certo senso segue le orme di ciò che accade con il talento equino indomabile: un cavallo promettente, anzi un campione che, come topos richiede, non accetta di buon grado di farsi mettere il morso e la sella. Se però è la libertà, pur nella condizione di prigioniero inevitabile entro un recinto, ciò a cui per istinto il cavallo tende, è più un’idea di anarchia affettiva quella che sembra aver colto, tanti anni prima, forse per la fine mai elaborata del matrimonio con la madre di Tommi, il padre padrone, Renato, uno che pensa di avere potere di vita e di morte su chiunque, persino sulla propria prole. Incapace di trarre il cuore in bocca, Renato affoga le pulsioni nell’alcol e annega dei cuccioli di cane, non voluti; spara in faccia al destriero ferito perché deve farlo lui, lui che ha velleità da deus ex machina, ma è soltanto il Dio della propria miseria: nessun amore deve più contaminarlo.
Kim Rossi Stuart accompagna lo svolgersi della vicenda coi chiaroscuri dell’alternanza diurna e notturna di giornate tutte uguali, escludendo – ed è comprensibile la ragione per cui abbia scelto di farlo – ogni aspetto che esuli dall’individualità del sentire dei protagonisti. Tommaso ha un lavoro, un lavoro da equilibrista, che lo porta a stare appeso senza punti fermi sotto i piedi. Ma il fulcro del suo spaesamento non è professionale e neppure amoroso, sebbene lo spettatore venga reso edotto di una relazione problematica con una coetanea e di una recente, più tenera, conoscenza; è il maneggio – che sembra il ranch di un film di Eastwood o un’ambientazione alla Yellowstone, pur senza scimmiottare né l’uno né l’altro – cioè il luogo dal quale si è allontanato senza mai allontanarsi davvero (perché da quei traumi repressi e irrisolti non è potuto fuggire).
Così, quando si giunge al finale, non troppo inatteso nelle sue conseguenze pratiche ed emotive, ma mai ricattatorio, Tommaso sceglie di rinunciare ai cavalli, ma non al perno del proprio ritrovato equilibrio: la sua casa, una casa in cui torna a filtrare la luce, di nuovo fatta di presenze, nonostante il peso dell’assenza. Resta lì, non perché Deus vult!, ma perché finalmente l’aria ha ricominciato a fluire nei polmoni, come in una vecchia cavalcata col padre, ricordata e favoleggiata allo stesso tempo: quando si vive, si può accettare il rischio di cadere, anzi, si deve.
E se il merito principale di Brado, a livello stilistico, è quello di non cedere al fascino compilativo della citazione e del ricalco, vi è a suo favore anche l’abilità di schivare il facilissimo suggello giudicante. Pensando al personaggio di Renato, un uomo di certo respingente fino alla vera e propria repulsione, viene in mente una battuta di Marlene Dietrich ne L’infernale Quinlan: «He was a kind of man. What does it matter what you say about people?»
