Documentario, Recensione

BOWLING A COLUMBINE

Titolo OriginaleBowling for Columbine
NazioneU.S.A./Canada
Anno Produzione2002
Durata120'
Sceneggiatura
Montaggio
Musiche

TRAMA

Partendo dalla strage alla Columbus High School in Colorado, lo scomodo documentarista Michael Moore traccia un preoccupante bilancio sulla fobia americana della difesa personale attraverso armi da fuoco.

RECENSIONI

In tempi di cecchini impazziti che terrorizzano l'America, il documentario realizzato da Michael Moore è quanto mai attuale. Il regista (già noto per un precedente documentario, "Roger & Me", sui licenziamenti della General Motors a Flinth in Michigan) scava con arguzia nei meandri oscuri dell'"american way of life" cercando di capire cosa porta, o ha portato, un paese a detenere il record delle uccisioni per arma da fuoco. Le cifre parlano chiaro, ben 11.000 gli omicidi in un anno e ben 250 i milioni di armi nelle case degli americani. L'ovvia correlazione tra diffusione non controllata di pistole e fucili e omicidi viene messa in discussione attraverso il confronto con il confinante Canada. Abitudini non troppo dissimili, ma un numero molto inferiore di delitti. Cos'è allora che differenzia l'America? Michael Moore cerca di farcelo capire attraverso un'indagine approfondita e documentata, solo in pochi casi un pò approssimativa (esperienza personale, in Canada c'è anche chi chiude le porte a chiave!). Lo spunto di partenza è la strage alla Columbine School in Colorado, dove nel 1999 due ragazzi hanno massacrato dieci studenti e un professore per poi suicidarsi. Ma il documentario spazia a tutto campo sull'argomento, alternando interviste e manifestazioni pro o contro le armi, alla descrizione di abitudini ormai consolidate nella vita quotidiana. Il taglio è beffardo, caustico ed incisivo. Vediamo così la North American Bank che regala fucili a chi diventa correntista, madri che pensano attraverso la difesa personale di garantire il futuro dei figli, pallottole vendute senza alcun controllo nei supermercati. Una breve intervista a Marilyn Manson, accusato dai mass-media di istigare alla violenza, lo rivela meno mostruoso di come appare, mentre il famoso Charlton Heston, presidente della National Rifle Association, esce con le ossa rotte da un confronto con Michael Moore, in cui alle domande precise del regista non riesce a dare che risposte retoriche e prive di concretezza.
Tra i momenti più folgoranti, il riepilogo delle connivenze americane con regimi dittatoriali e sanguinari sulle note di "What a wonderful world", cantata da Louis Armstrong, e un formidabile cartone animato che spiega con ironia ciò che differenzia l'America dal vicino Canada e dal resto del mondo: un'atavica e indistinta paura, purtroppo ingigantita dai media che diventano i principali responsabili di una strategia del terrore finalizzata al controllo dell'individuo. L'attualità continua a ricordarcelo attraverso la pianificazione di guerre preventive che nascondono quasi esclusivamente interessi economici. Ma i media non demordono e, anzi, insistono: paura del vicino di casa, paura in strada, paura a scuola, paura al supermercato, paura in vacanza, paura ovunque. Il fatto che i casi di cronaca nera siano diminuiti, ma sia maggiore lo spazio che hanno nei mezzi di comunicazione, dovrebbe farci riflettere: forse c'è chi vuole farci vedere le cose in un unico modo. Davvero tanti quindi gli stimoli offerti dalla visione del documentario. Oltre al risultato, sicuramente illuminante ed efficace, sarebbe stato interessante capire come Michael Moore sia riuscito ad ottenere alcune dichiarazioni. Le interviste erano accordate o spontanee? L'operatore era in alcuni casi invisibile (tipo "Le iene" per intenderci)? Le liberatorie di chi è stato filmato sono state firmate senza problemi? Domande senza risposta che non inficiano certo la visione ma lasciano un sospetto (ahimè legittimo) sulla totale veridicità di quanto proposto. In ogni caso, ammirabile l'impegno in prima persona del regista americano per un mondo migliore.

Cosa c'è che non convince in questo nobilissimo BOWLING FOR COLOMBINE? Sottoscritta la teoria, riconosciuto come efficace il ritratto della cultura del terrore, l'orrore manifesto e occulto di un'America che non ci piace, condivisa in pieno l'indignazione rimane un piccolo grande sconcerto. Questo non è dovuto alla natura ibrida dell'opera, al suo essere un documentario fino a un certo punto, ma al fatto che la centralità del regista non si pone come strumento per l'esposizione di un semplice punto di vista che seduce con la forza degli argomenti ma una forzatura dei confini della prospettiva, un travalicamento che si fa schieramento spurio e un po' acritico che provoca una (im)percettibile distorsione e fa perdere quota alla denuncia che sorreggeva bene la primissima parte dell'opera, smorzandone il potenziale incendiario. A un certo punto non si documenta più, l'analisi va a farsi friggere e si persegue pedantemente una tesi: facendo spazio a questa ingombrante esigenza si perde in mordente, si ricatta lo spettatore, si fa un po' di (sana, una volta tanto) demagogia, cose che, tutte, sbilanciano il prodotto, lo appiattiscono su toni da pubblicità progresso (il dimenticabile passaggio degli studenti feriti e la loro protesta contro la vendita dei proiettili nei K-Mart). Troppo lungo, troppo diseguale, a tratti appannato e in debito di lucidità, BFC ci fa provare pena anche per un vecchio e rincoglionito Charlton Heston, che pietà non ne meriterebbe alcuna. Dire che è stato un film sopravvalutato, pur nei suoi evidenti meriti (non solo etici, sia chiaro), varrà come una bestemmia in certi ambienti (soprattutto dopo l'esternazione in mondovisione del simpatico regista - che ha la stessa faciloneria di alcuni passaggi del film -; e anche lì ci sarebbe da dire: non sarebbe stato meglio un misurato e tagliente discorso sulla guerra fittizia di Bush piuttosto che un urlaccio? A cosa vale paralizzare una platea con atteggiamenti che domani si bolleranno come le escandescenze di un estremista?) e allora non lo dirò. Poi penso a certi Wiseman, tanto belli e forti quanto misconosciuti, e allora sì, lo dico: sopravvalutato.