Commedia, Sala

BORIS – IL FILM

TRAMA

Il regista René Ferretti abbandona la fiction tv che ha fatto per anni e tenta il grande salto: un film d’autore.

RECENSIONI

Dagli episodi di venti minuti al lungometraggio conservando lo spirito della serie, la capacità di divertire, l'equilibrio narrativo ed il ritmo.
L'avventura di Renè Ferretti nel mondo del cinema merita pienamente le quasi due ore di pellicola. Il divertimento deriva anche da questo: lo spettatore ed i personaggi si spostano dall'universo televisivo a quello cinematografico proprio come trasloca il marchio Boris.
Fedele a se stesso ma capace di individuare e sfruttare le differenze tra i due mondi, Boris continua a fare una satira intelligente e senza sconti. Film anche per questo amarissimo dietro le risate, che al di là del piacere del riconoscimento di personaggi ed attori noti, di tormentoni e citazioni, svela il baratro culturale e morale del Paese. Una ferocia che vale ancor più perché non si ferma alla messa alla berlina dei cinepanettoni e di chi li fa, ma si estende anche al pubblico e, perché no, alla controparte, gli autori colti e snob, inconcludenti filosofi della qualità e dell'arte.
Per giungere alla conclusione che comunque non c'è grande possibilità di scegliere ed offrire qualcosa al di fuori dei canoni precostituiti, perché il "sistema" quasi sempre sconfigge. Forse la miglior "battuta" è quella sulla concorrenza: "Non c'è concorrenza, siamo noi la concorrenza".
Il circo di Boris è come sempre popolato da mostri, che si fanno amare senza che scatti un odioso meccanismo assolutorio, senza l'anestetizzante effetto consolatorio.
Tutti presenti all'appello gli attori storici (tranne Corrado Guzzanti, purtroppo, e Roberto Herlitzka), con Renè ormai protagonista assoluto che ha conquistato sul campo il primato. La prospettiva, che inizialmente era quella dello stagista precario e maltrattato, è ormai da tempo quella del regista alle prese con la fiction nostrana e poi con l'industria cinematografica. La bravura di Francesco Pannofino, d'altra parte, mette gli altri, pur validi, fuori gioco.
Come canta Elio, dal piccolo al grande schermo il salto è insidioso, anche o soprattutto per le serie di culto. In questo caso, la scommessa è vinta. Ma conoscendo l'Italia, temiamo che il film lo andranno a vedere solo i fedelissimi della "fuoriserie": troppo pochi.

Tre stagioni, un culto che si alimenta esponenzialmente, la definizione inopinabile di miglior prodotto seriale italiano: Boris - serie tv che fotografa lo stato della serialità tv, il degrado umano che abbraccia quello estetico in nome della necessità produttiva, i retroscena con cui l'Italia televisiva si rappresenta - sbarca al cinema. E, coerentemente, lo affoga nel vetriolo. Inevitabilmente meta, Boris dimostra un'autoconsapevolezza disarmante. Non solo perché è capace di demistificare con acume i luoghi cardine della società dello spettacolo italiota, di sfogliare un menù 'Industria culturale' composto da compromessi, corruzione, raccomandazioni, massonerie, ignoranza diffusa e via elencando, di sintetizzare in battute e gag situazioni particulari che caratterizzano lo stato delle cose generale. Non solo perché narra il tentativo di mettere in scena (e dunque, al principio, di analizzare con sguardo distante) La casta di Stella e Rizzo, dimostrando infine l'impossibilità, in questo paese, di prescindere, di allontanarsi da questa familismo immanente, vuoi per scelta o vuoi per Caso (che - ed è solo un esempio - René abbandoni gli snobismi della Casta Cinema per tornare ai suoi rozzi abituali collaboratori non è esattamente una vittoria, ma l'ineluttabilità di una sconfitta permanente; che - ed è solo l'apoteosi - il film si traduca in un cinepanettone dimostra l'impossibilità di emanciparsi dalla commedia dell'arte che è l'anima dell'Italia, il nucleo non estirpabile di una nazione, di un governo, di un discorso di rappresentazione).

L'autoconsapevolezza di Boris è più profonda, struggente: perché non c'è vittimismo, perché i suoi protagonisti sono frutti, certo, ma anche, insieme, responsabili dell'immaginario di un Paese. Perché se René non riesce a liberarsi dal linguaggio e dal mondo della Tv è – ed è ciò che determina lo spessore dello script - anche colpa sua. Perché, in fondo, si tratta di una tragica questione antropologica, di un circolo vizioso soffocante. “Non si esce dalla televisione: è come la mafia, non se ne esce se non da morti”. La circolarità del film sancisce la stasi, Boris è un film determinista: René, che da spettatore aveva preferito Natale nello spazio a un film di Ozon, diviene spettatore del proprio cinepanettone; fuggito dai pavloviani ralenti di Il giovane Ratzinger vi ritorna ineluttabilmente. E prima che Elio e le storie tese, sui titoli di coda, si facciano profeti del destino economico di una commedia troppo fine per  palati primitivi abituati a panettoni e cocomeri, al cinema, di fronte a Natale con la casta, la mdp si sofferma sui volti dei protagonisti, complici della disfatta. Ma – pare dirci questo 8 ½ finale dal valore altamente simbolico e emotivo – anche inermi spettatori di un linguaggio che li ingloba, ineludibilmente: l'ansia completista con cui il film si affanna a far comparire (quasi) ogni personaggio della serie è un omaggio ai fan, quanto, sottilmente, un tenero commiato, la consapevolezza del legame inestricabile con le radici televisive, l'autistico e commovente segnale di quell'impossibilità di estraniarsi dalle logiche Tv di cui sopra.
Capace di creare una narrazione stratificata, compatta, di stile e struttura coerente con l'anima del progetto, senza sacrificare i caratteri elementari dell'umanità che abitava la serie, Boris – Il film è aria fresca e desolata nel desolante panorama della produzione leggera nostrana. Graffiante, intelligente, come mai una commedia nell'ultimo decennio. Divertente con amarezza, parodico solo per convenzione critica. E, nel profondo, infinitamente triste