Amazon Prime, Drammatico, Horror, Recensione, Sentimentale

BONES AND ALL

Titolo OriginaleBones and All
NazioneItalia, U.S.A., U.K.
Anno Produzione2022
Durata130'
Sceneggiatura
Trattodal romanzo Fino all'osso di Camille DeAngelis
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Maren, una ragazza che sta imparando a sopravvivere ai margini della società poiché cannibale, incontra Lee, un solitario dall’animo combattivo, cannibale anche lui.

RECENSIONI

A thought that never changes
Remains a stupid lie
It's never been quite the same
(New Order,  Your silent face)

La maturità splendidamente immatura di Luca Guadagnino, raggiunta con il miracoloso Chiamami col tuo nome e riaffermata/ribaltata col capolavoro che è la serie d'autore We are who are, cerca conferma nel suo nuovo film lungamente annunciato e inclassificabile. Perché cos'è Bones and all? Un road movie? Un horror con cannibali? Un teen movie con racconto di formazione annesso? Una love story? Secondo l'autore il film dice come ogni film "sono come tu mi vuoi" ma, dal suo punto di vista, «è soprattutto una storia d'amore». E aggiunge «tra tutti i miei lavori è quello che affronta in maniera più diretta la solitudine come può essere quella di una figura che si staglia nella vastità di un vuoto». Tra i presupposti filosofici del cinema di Guadagnino c'è la predilezione per il gender crossing e i territori fervidi dell'ibrido, dell'ambiguo, del paradossale. Ne consegue una dimensione esistenziale fatta rappresentazione che è quella del picaresco, del viaggio, della deriva. In Bones and all è nodale il rapporto tra mappa e territorio, tra gli Stati Uniti della mente mappati attraverso film e oggetti culturali e quelli in carne e ossa e tutto andati a vedere e toccare durante ricognizioni (la prima volta del regista nel Midwest, un viaggio iniziatico da vergine come quello del film, lo sguardo giusto) e riprese. C'è una compresenza fantasmatica di mappa e territorio nella scansione a capitoli per stato attraversato, ognuno siglato in sovrimpressione grafica. E c'è tutto un immaginario digerito e sublimato e personalizzato di cui riconosciamo i caratteri all'interno di un Midwest che è il Midwest di Luca Guadagnino. Ritroviamo tanto cinema indie o meno indie anni '80/'90: l'attacco con le riprese simmetriche dentro l'high school chiamano Van Sant (Elephant), i notturni rurali con gli scrosci di luce da fanali o lampioni a tagliare il nero pece sono spielberghiani, Lynch è quasi dappertutto nell'estetica come nei personaggi. Inoltre, prevedibilmente, nell'immagine viene versata una cultura visiva non esclusivamente cinematografica: il Midwest white trash con la sua violenza aleggiante richiama le foto di Joel Sternfeld; le atmosfere notturne possono essere spielberghiane o lynchiane ma ricordare anche l'inquietudine di Gregory Crewdson; soprattutto la mappatura sul campo, chilometro per chilometro, dell'America che circonda le sue highway e strade secondarie ha un debito con i lavori di William Eggleston. C'è poi l'altro repertorio immaginifico eminentemente a stelle e strisce, precipitato del mito della frontiera e figlio inquieto del great outdoor, che è il road movie. Bones and all ricorda sicuramente Cuore selvaggio con il suo romanticismo screziato di violenza estrema, Broken flowers per la ricerca identitaria nel suburbano antiepico ma soprattutto Fratello, dove sei? dei fratelli Coen per aver palesato le emersioni omerico-odissiache dal tessuto picaresco del road movie (la scena del falò lungo il fiume con Michael Stuhlbarg polifemico sembra venire direttamente dal film dei Coen).

Il cinema di Guadagnino è da sempre feticista oltre che due volte citazionista, culturale, saggistico; ha un'attitudine archeologica nello scavo di tutte le concrezioni dell'immaginario/luogo/ambiente dove vuole, di volta in volta, muoversi. E poi ingloba medium altri, anche a modo di détournement, per non confermare la lettera, per giustapporre livelli non testuali. Almeno a partire da Chiamami col tuo nome l'operazione è generalmente riuscita. Coerente con i presupposti della visione del mondo deleuziana spesso esplicitata dal Nostro, si tratta di cinema rizomatico e atmosferico. È un cinema che si lascia guidare dal desiderio - di vedere, di scoprire, di concatenare - e trova nel road movie una forma aperta all'imprevisto, alla libera associazione e proliferazione. È questa deviazione dell'immaginario del great outdoor, dell'automobile che fila nel paesaggio per riposizionarsi in un territorio che risponde a impulsi personali, esistenziali, filosofici a cifrare Bones and all come opera piena di stilemi che, però, non potrebbe essere più autoriale. Lo stile autonomo personale è anche stile libero perché sempre più dà l'impressione dell'improvvisazione, dell'adeguamento della camera al mondo (mentis ad rem). Quando Chalamet fa l'air guitar sui Kiss percepiamo una mdp che va dietro a un attore cui è stato detto "fai quel che vuoi". Inoltre, come nelle opere precedenti, la musica ha un ruolo plurimo: firma il film con le proprie ossessioni e imbastisce un discorso meta-cinematografico (dall'assurdo di Arto Lindsay diegetico infilato a détournare dadaista Melissa P. come uno sfregio sulla tela alla partitura crono-ambientale di Chiamami col tuo nome fino alla coesistenza di brani "dei giovani" e "degli sceneggiatori" in We are who we are a significare una sintesi di punti di vista). La musica specifica le coordinate spaziotemporali oppure le trascende quando - è il caso dei Joy Division / New Order in sequenza - fa da reagente moltiplicatore di un'estasi.
Per queste ragioni, per l'attitudine ibrida spontaneistica vitalistica, perché sì e perché Deleuze, Luca Guadagnino sa scrivere e filmare l'adolescenza. Vi aderisce per attitudine, sta dalla parte giovane per indole e slancio, non ha mai distacco per paternalismo o entomologia. Perché ovviamente Bones and all parla di adolescenti che cercano di definire loro stessi e il loro posto nel mondo, che hanno una condizione che li rende diversi, outsider, emarginati - come tutti i teenager del mondo, anche quelli non antropofagi - e che devono tematizzare per poterla gestire. L'altro motore della scoperta (di sé, del mondo) è l'amore - da qui il parallelo, fin troppo da manuale, tra baci e morsi, l'amore cannibale. La sviluppo diegetico-tematico si regge sulla metafora, non particolarmente originale, tratta dal romanzo di Camille DeAngelis che ci scorta fino al finale (variato rispetto alla fonte). Quando i due belli e dannati lasciano le badlands del nomadismo per sistemarsi e provare la vita degli integrati e il ritorno all'ordine mi sarei atteso una progressione di tracciati reciproci incrementalmente simmetrici in un interno/appartamento, come in Notte e giorno di Chantal Akerman. Invece l'idillio è presto sbranato dal pathos del romanticismo teen amore-e-morte e dal topos dello stigma a vita o, più trivialmente, del mondo di vecchi feroci che è l'America conformista e di destra degli anni '80 - siamo in pieno reaganismo e Guadagnino come suo solito ci ricorda discretamente che il contesto sociopolitico conta e si connette all'attualità attraverso inserimenti, in questo caso un filmato d'epoca dell'allora procuratore federale Rudy Giuliani. Il racconto della storia, la scrittura è stata criticata e tutto sommato è l'anello più debole del film - resta da capire quanto conta.

Il lavoro sui generi effettuato da Guadagnino è funzionale ai discorsi. La destrutturazione dell'horror cominciata con Suspiria evolve nella parcellizzazione, nell'horror omeopatico che isola lo splatter, il gore a poche fiammate intense -  comunque spinte q.b. per far scappare dalla sala un pubblico troppo assuefatto ai confort food per poter digerire la carne umana. Inoltre, come gli allegri massacri di Tarantino erano infinitamente meno scioccanti e perturbanti di un singolo sparo in un film di Kitano, non è solo questione di escissione e strappi. Il regista esplicita l'ossessione tematica per ciò che lasciamo quando moriamo, quando i corpi si squagliano e disfano. È un film pieno di relitti e reliquie (la corda di capelli) in cui paradossalmente sono solo i cannibali a porsi il problema della morte (e del resto di una vita, bones and all) nel decennio edonista e consumista che ne decretò il bando dalla coscienza individuale e collettiva. Durante il pasto con anziana signora, Guadagnino indugia sulle fotografie appoggiate al comodino, sui piccoli oggetti orfani, su tutto ciò che andrà perduto come lacrime sulla pioggia - ossia sull'orrore vero. I giovani cannibali sono reietti dell'era reaganiana non privi di ambiguità ideologiche. Fanno sparire i marginali secondo criteri di scelta che il partito repubblicano avrebbe approvato: il reietto white trash, l'anziana sola, l'omosessuale (per poi disperarsi quando scoprono che aveva moglie e figli). Potrebbe essere un segnale dei molteplici modi con cui il sistema coopta tutti senza scampo e si serve del dissenso oppure - a mio avviso, molto più probabilmente - una parte necessaria della formazione picaresca dei protagonisti, che provano tutto in un viaggio iniziatico senza limiti, in cui ci si determina provando ribellioni e obbedienze, devianze e ritorni all'ordine proprio come il road movie come genere significa, ambiguamente, insieme formazione e fuga.

Il bello del cinema di Guadagnino al suo meglio è che le cose sono al massimo della sofisticazione oppure al grado zero, non c'è via di mezzo. Esattamente come i luoghi, gli attori di Guadagnino hanno la qualità duplice fantasmatica dell'essere quello che sono senza attributi (we are who we are) puri corpi erotici e insieme corpi culturali, proiettivi, coperti di ipertesti. Taylor Russell, al primo ruolo impegnativo e Premio Mastroianni a Venezia, è una scoperta: è un corpo-zeitgeist, una specie di seconda Zendaya che sposta il centro carismatico dal piano fisico a quello mentale. Nelle interviste abbonda la theory, nel film ha (anche) il ruolo guadagniniano di segnalatrice ipertestuale, di link umano: porta con sé i libri, segnatamente Il signore degli anelli come a specificare che si tratta pur sempre di un racconto di fantasy e di un racconto di formazione e Gente di Dublino di James Joyce, il più grande poema della paralisi, della polvere e delle ceneri che ci sia, per indicare non solo la zona morta che è perimetro d'azione ma soprattutto il focus tematico su «l'eredità di ciò che lasciamo dietro di noi quando scompariamo e, soprattutto, quando veniamo fatti sparire da persone che distruggono i nostri corpi». Mark Rylance, nel ruolo a tratti caricaturale di uber-senex, è una specie di Joe Biden riscritto da David Lynch con in mente specialmente Killer Bob (Twin Peaks). È anche un personaggio con mille antecedenti, un archetipo fatto e finito, concrezione delle minacce plurime che incombono sul viaggiatore on the road, che possono venire dall'esterno (i pericoli dell'avventura) e soprattutto dall'interno (si parte, abbiamo visto, per fuggire se stessi ma si può essere raggiunti). Da La morte corre sul fiume a Cape Fear fino a Non è un paese per vecchi è pieno di inseguitori assolutamente, sordamente maligni, di incubi che sembrano in grado di percorrere senza sforzo tutto il globo (il che fa sospettare che i Sully siano ovunque perché noi ce li portiamo dietro), di Golem dai tratti sovrumani. Sully è anche, più specificamente, un cannibale che ha perfettamente integrato la soppressione morale tipica della maggioranza silenziosa anni '80, che a differenza degli antropofagi di nuova generazione non si pone più problemi. È il mondo vecchio che incombe sul mondo giovane per sbranarlo, come è sempre (?) accaduto e continua a accadere. Guadagnino sessantottino continua a suggerire che i padri vanno uccisi perché il rapporto padre-figlio è una gara a chi uccide per primo l'altro (e lo mette nel film, letteralmente). È poi interessante come, nel quadro di adulti marci familiare all'universo guadagniniano, il ruolo di madre-pazza vada a Chloë Sevigny. Ex freak anni '90 per antonomasia e figlia non conforme semprefiglia, già in We are who we are aveva avuto l'assegnazione del ruolo diametralmente opposto di madre marziale. Il corpo Sevigny finisce per essere, in un film sugli anni ottanta, il futuro anteriore del riflusso del decennio successivo. Timothée Chalamet, infine, meriterebbe un saggio dedicato. Adepto devotissimo e innamorato del regista italiano che l'ha lanciato, mette a disposizione di Bones and all la coproduzione e il fisico mai così oltre lo scheletrico, il volto di cui la mdp si innamora e soprattutto l'aura. Vedere Chalamet con il mullet dalle punte rosso rame ispirato tanto a Cyndi Lauper quanto alle tinte pro TikTok significa vedere l'uomo del suo tempo sdoppiarsi in una storia in tempo altro. Timothée Chalamet è il presente. C'è qualcosa di sovrumano nel suo fiuto, nell'apparente naturalezza con cui centra ogni outfit e ogni ruolo senza dare l'idea di rincorrere una correttezza, nell'adeguare l'essere star ai tempi depurandolo di ogni traccia di mascolinità alpha, nella scalata allo star system come corpo tutto aura, tutto erotico, proiettivo e catalizzatore che ha al contempo la freschezza, la spontaneità di un primo tra pari, di un antieroe kawaii cui non interessa interpretare supereroi tanto sullo schermo quanto nella vita. Non è un caso che sia stato proprio Chalamet, in una conferenza stampa veneziana, a sintetizzare in una frase definitiva lo spirito del tempo: "societal collapse is in the air". La camera - abbiamo ripetuto - comprensibilmente si innamora e non lo nasconde, per esempio nel prolungato primo piano durante il falò con Michael Stuhlbarg, quando è inquadrato dal basso, di tre quarti, in controluce come un'icona. È (anche) il catalizzatore proiettivo del racconto tragico di giovinezza ai tempi di Reagan sulla contemporaneità nostra che ha portato quelle premesse ideologiche e socioeconomiche alle conseguenze estreme.

Luca Guadagnino, al primo film tutto americano e al secondo horror, dice che «tutti i film horror sono film teneri» e vuole parlare di tutti gli istinti devianti prendendo per antonomasia uno di quelli caricati del tabù più potente: l'antropofagia. Vuole parlare in particolare di come si reagisce alla scoperta dentro sé di qualcosa che la società degli integrati legge come minaccia integrale e farà reprimere o sopprimerà. Osserva chi lotta e chi cede e le modalità singolari di tematizzazione e problematizzazione. La gioventù è, al solito, il territorio esistenziale preferito mentre il Midwest americano con i suoi residui di frontiera e terra di opportunità è il luogo fisico, come già la base militare a fianco laguna di We are who we are o l'estate italiana fuori dal tempo di Chiamami col tuo nome, dove ambientare la «possibilità entro i confini dell'impossibile, che in un certo senso è la pratica dell'utopia. Come un film può rendere possibile l'impossibile». La passione di Luca Guadagnino è la creazione di controspazi, spazi queer, isole di possibile in mezzo allo spazio finito. C'è un momento perfetto, verso la fine, quando i protagonisti raggiungono le Ogallala Grasslands in Nebraska sulle note di Your silent face dei New Order. Il paesaggio è vastissimo e rarefatto come solo nelle pianure africane, Taylor Russell e Timothée Chalamet sono isolati nello spazio che sfuma in ogni direzione, c'è una infinità sospensione del tempo e quindi della realtà, dell'esistenza. Uno dei momenti più incantanti di We are who we are accade quando i protagonisti diretti a Bologna si perdono in una periferia senza connotati immersa nella nebbia e, finalmente liberati dal peso di spazio, tempo e identità, si abbandonano all'euforia e gridano «we don't exist! we don't exist!». Ai due protagonisti in fuga di Bones and all sembra - per un attimo perché purtroppo la forza di gravità vince sempre - che il mito della frontiera non conduca al paradiso protestante dell'accumulo bensì a zone zen di satori, al nirvana, alla scomparsa dentro gli elementi atmosferici (quelle nuvole pittoriche sopra quei corpi senza peso, meno che sagome, «figure che si stagliano nella vastità di un vuoto» e che sono quel quadro, quel vuoto). Nei momenti più felici del cinema di Guadagnino la temperatura, l'atmosfera, la luce sono tutto: sono scene amniotiche che non a caso lasciano la voglia di essere riviste di nuovo e ancora, per ritornare e regredire dentro immagini (stati d'animo) che hanno aperto il cuore all'eterotopia. In fondo Bones and all andrebbe riassunto così: sono giovani, sono cannibali, si amano, in America. This is all you know and all you need to know on Earth. Evviva, un autore.