Drammatico, Recensione

BLUE JASMINE

Titolo OriginaleBlue Jasmine
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2013
Durata98'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Dopo la fine del suo matrimonio, Jasmine lascia New York e si trasferisce a casa della sorella.

RECENSIONI

Dopo quasi quindici anni di film derivativi, e quel che è peggio maldestramente arrabattati, girati in fretta e dimenticati più in fretta ancora, Woody Allen mette a segno un punto, che potrebbe essere quello della bandiera e certo non basta a far supporre (sperare? sognare?) un'inversione di tendenza. Quel che è certo è che Blue Jasmine, all'apparenza fatto della stessa deprimente sostanza degli Allen 'anni Duemila', non è del tutto riconducibile alla precotta, premasticata e predigerita griffe cui si è ridotta la firma di uno dei grandi registi americani degli anni Settanta e Ottanta.

B. J. è derivativo quanto Match Point (che pescava da, o per meglio dire saccheggiava, Crimini e misfatti) o Scoop (cfr. Misterioso omicidio a Manhattan): stavolta (ci) si rifà (a) Un'altra donna e Alice, essendo il film imperniato sulla figura di una donna che archivia una deludente esperienza coniugale e si trova a fare i conti con il passato e soprattutto con il futuro. Jasmine Francis non possiede però la forza e l'integrità di Marion Post, né l'ingenuo entusiasmo di Alice Tate: malgrado abbia l'altera bellezza di Cate Blanchett, Jasmine (anzi, Jeanette) è una perdente in puro stile alleniano, superbo esempio di forma senza contenuto, come la Flyn di Interiors, e al pari di quella è drogata di sé, letteralmente persa nella venerazione del proprio (supposto, e comunque tramontato) splendore, ossessionata dal mantenere un perfetto ordine e un immutabile decoro che esistono ormai solo nella sua inesausta fantasia, nella sua distorta memoria. Una figura tragica, di cui è impossibile ridere, perché mette in risalto, tra un grottesco vezzo e l'altro, una fragilità e una disperazione che sono la sigla dei grandi (anti)eroi del cinema di Allen, il cui prototipo è indiscutibilmente Leonard Zelig. Jasmine, donna camaleonte (perfino il nome è una citazione e una menzogna), passeggia con studiata disinvoltura sul viale del tramonto e finirà definitivamente prigioniera delle proprie allucinazioni, come la protagonista del film di Wilder e la Blanche di Un tram che si chiama desiderio, forse il riferimento più pregnante per inquadrare la figura della protagonista, che precipita come un'aliena dalla New York dei nababbi al melting pot della San Francisco dei quartieri popolari, intrattenendo rapporti non esattamente idilliaci con il fidanzato della sorella e i suoi amici.

Attraverso una serie di flashback, che alter(n)ano i piani del racconto, Allen segue i percorsi opposti e complementari di Jasmine e di sua sorella Ginger (una Sally Hawkins senza aggettivi, se non uno: perfetta). Con una feroce crudeltà da moralista disilluso, che riaffiora dal passato e soppianta la generica bonomia dell'ultima (in ogni senso) maniera, il regista svela che l'apoteosi della virtù e l'umiliazione del vizio non si manifestano mai in forma pura, ma sono strettamente collegate, e nessuna delle due costituisce una valida difesa contro l'amarezza, la frustrazione e il rimpianto. La brillantezza di dialoghi scattanti e vacui, la fotografia (di Javier Aguirresarobe) come sempre impeccabile e patinata, la macchina da presa che si muove, una volta tanto, felpata e implacabile nel catturare la follia che percorre l'apparente immobilità della dissimulazione (memorabili almeno la sequenza in cui Jasmine attende la telefonata di Dwight e l'apparizione dell'ex cognato nel prefinale), gli attori, splendidi e magnificamente diretti (inutile citarli tutti, ingiusto non menzionare almeno Michael Stuhlbarg nella parte del dentista) sono ragioni sufficienti per concedere ad Allen (o quel che ne resta) l'ennesima ultima chance. Fino al prossimo capitombolo.

Se questa è una delle opere più riuscite di Woody Allen, è tutto merito di Cate Blanchett: qualsiasi (eventuale) sfumatura del testo si legge sulle sue smorfie, le sue reazioni, il suo immane talento nel restituire uno spettro di emozioni con cui lo spettatore è in grado di riconoscere il sentimento collegato e, quindi, di definire la scena. Di figure femminili in dramma e crisi sentimentale, disoneste prima di tutto con se stesse (anche il nome è un’invenzione), è costellato il cinema del newyorkese (in trasferta a San Francisco dopo aver girato l’Europa) e Jasmine le riassume tutte, con l’aria altezzosa non dissipata nemmeno nei bassifondi: dopo aver rovinato la propria vita, rischia di trascinare nel baratro anche la sorella, mettendole grilli in testa sul volere e volere di meglio. La scrittura di Allen è elaborata, inserisce continui flashback, svela la trama progressivamente e arriva ad un colpo di scena da Match Point (ma meno sorprendente). Non è l’Allen bergmaniano e psicanalitico del passato: il dramma appartiene tutto al personaggio e, nei modi tragicomici di inscenarlo, finanche grotteschi, si innesta magnificamente la recitazione nevrotica, dissociata ed inquietante di Cate Blanchett, figura mai adorabile (la misoginia alleniana dilaga: non ci sono caratteri muliebri da salvare, rispetto a quelli maschili), priva di riscatto eppure non detestabile in quanto, prima di tutto, vittima (fino al dolore immane) di se stessa. Coincidenza (?): Cate Blanchett era reduce dal palcoscenico di Un Tram che si Chiama Desiderio diretta da Liv Ullman, e la sua Jasmine pare un’attualizzazione di Blanche Dubois che, parimenti, si trasferiva dalla sorella finendo col giudicarla.