Horror, Sala

BLOOD STORY

Titolo OriginaleLet me in
NazioneGran Bretagna/ Stati Uniti
Anno Produzione2010
Genere
Durata116'
Sceneggiatura
Tratto dada Låt den rätte komma in (romanzo e sceneggiatura) di John Ajvide Lindqvist
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Owen ha dodici anni e vive a Los Alamos, New Mexico. I genitori stanno divorziando, a scuola dei bulli lo tormentano con violenze di ogni tipo e non sembra avere molti amici. Un giorno, arriva nel palazzo una strana bambina, Abby, accoompagnata da un ombroso guardiano. Abby, in realtà , è un vampiro e accompagnerà Owen nel mondo degli adulti.

RECENSIONI


Versione americana del film svedese del 2008 Låt den rätte komma in (Lasciami entrare), Let me in appartiene a quel peculiare sottoinsieme di remake americani di film stranieri che andrebbero più correttamente qualificati come semplici traduzioni piuttosto che veri e propri rifacimenti. C’è, infatti, una solidissima fedeltà all’originale che viene traslato quasi esclusivamente per lingua, nomi e geografia. Si cambia un paese lontano con un’ambientazione nazionale; dei nomi dal suono bizzarro con quelli di possibili amici o conoscenti; e, soprattutto, una lingua incomprensibile, che richiederebbe l’uso di sottotitoli sovrapposti ai fotogrammi, con la propria lingua nazionale. Il paradosso, se si vuole, è nel fatto che più il remake rispetta l’originale, più il movente artistico è fragile, riducendosi a una (legittima) finalità culturale di intermediazione.
Nulla di male. Si potrebbe persino concedere che, sebbene assai più imponente per i costi e per il notevole armamentario di professionalità richieste, la traduzione cinematografica americana è operazione assai più diretta e onesta dell’amato doppiaggio nostrano, che sovrappone voci e suoni alieni all’opera originale, stravolgendola inevitabilmente. Per la stessa ragione, tuttavia, l’operazione di intermediazione, pur dando vita a un’opera cinematografica autonoma, tende all’irrilevanza e all’inutilità. Si dovrebbe anzi dire che un remake-traduzione è tanto più riuscito quanto più è inutile e irrilevante rispetto all’originale; è tanto più compiuto quanto più è artisticamente trascurabile e dunque perfetta interfaccia di puro servizio per lo spettatore pigro, xenofobo, poco sofisticato o semplicemente ignaro.

In questa equazione, il film di Reeves ottiene un ottimo punteggio quanto a irrilevanza. L’autore sembra condividere la tesi di cui sopra e svolge il suo compito con intelligenza, abilità e sobrietà. Let me in ricalca pedissequamente le orme del film di Alfredson e tenta con grande professionalità di esaurire il proprio ruolo nell’ambito della versione piuttosto che in quello della creazione. Sono quindi le differenze tra le due pellicole a costituire vero motivo di interesse critico.
In generale, Reeves sceglie un tono più caldo e impetuoso. Nella fotografia, Let me in ha luci appena più rossastre, ma, soprattutto, spazi più contratti e campi meno lunghi. L’obiettivo di Reeves è meno lontano e maggiormente partecipe degli eventi rispetto a quello di Alfredson. Questo intento (che è pure un tratto personale del regista, basti pensare all’iperbole soggettiva ed intradiegetica di Cloverfield) serve anche una maggiore preoccupazione per l’effetto spettacolare (preoccupazione stimolata da un budget pari a cinque volte quello concesso al film svedese). Anche la struttura del plot subisce una torsione coerente: si comincia in medias res, con una folle corsa in ambulanza, un detective spaesato, un uomo misterioso e un apparente suicidio, tra urla, strepiti e mistero. Poi un flashback ci riporta all’inizio dei fatti. Il trucco è classico e mira ad anticipare una tensione di stampo classico, da detective story, piuttosto che puntare tutto sull’accumulazione umorale del film di formazione. Questa lieve flessione verso il plot d’indagine si vede anche nell’attenzione che Reeves dedica al poliziotto che indaga sui crimini vampireschi.

Nelle scene più cruente, inoltre, Let me in alza i toni, provando a rinforzare l’effetto orrorifico: si tratta, più che altro, di una mera operazione quantitativa (più urla, più ringhi animaleschi, più fiamme che divorano la sventurata vittima sopravvissuta ecc.) che ha il segno più evidente nell’uso della CGI per dare aspetto e movenze demoniache ad Abby nei momenti in cui viene allo scoperto la sua vera natura. Ma l’effetto complessivo non è irrilevante: rispetto al suo predecessore, il film di Reeves è meno lunare, più diretto, più pieno. Questo umore diverso si concretizza anche nella traccia sonora: Reeves sceglie la presenza corposa e penetrante dell’ottimo score di Michael Giacchino, riducendo il ruolo che il film di Alfredson lasciava al silenzio nordico.
Una menzione a sé merita l’unica sequenza radicalmente originale del film, che è anche la più virtuosistica: l’accompagnatore di Abby si apposta nell’auto di una potenziale vittima, ma quest’ultima è raggiunta da un amico che si fa dare un passaggio. Il ragazzo al volante si ferma a fare benzina e l’amico, rimasto in macchina, scopre il vecchio nascosto dietro ai sedili. I due lottano, il vecchio ha la meglio, s’impadronisce del volante e prova a fuggire in retromarcia, mentre il proprietario dell’auto e alcuni amici incontrati alla stazione di servizio corrono contro la macchina in corsa. La corsa in auto a marcia indietro è filmata con una inquadratura rigidamente fissa e incollata dentro l’abitacolo, come se il punto di vista fosse quello di un passeggero seduto sul sedile posteriore, miracolosamente immobile durante la corsa, i sobbalzi, gli urti e il rotolamento dell’auto fuori strada. L’effetto è concitato e scatena ciò che altrove è sottotraccia: la voglia di Reeves di scardinare e movimentare la pulita pacatezza compositiva dell’insieme.

Nel complesso, però, queste peculiarità (tutte riassumibili sotto il segno di una cinematografia un po’ più muscolare e diretta) risultano meno interessanti delle modifiche di contesto e di dettaglio applicate da Reeves allo script originale. In breve, tutte le considerazioni più suggestive fatte sul film di Alfredson (sulla introiezione del vampiro/violenza come passaggio all’età adulta (e di Eli come proiezione/riflesso dell’aggressività di Oskar), sulla neutralizzazione del carattere sessuale, sul rapporto con la diversità, sul contrasto irrisolto tra tono e sentimento) non possono riproporsi per la versione americana se non in misura assai sbiadita.
La diversità di Abby, rispetto a quella di Eli, è attutita in due aspetti cruciali: mancano i tratti fisici esotici (mentre è legittimo dubitare della con nazionalità di Oskar ed Eli, nessun dubbio sorge per Abby e Owen) e manca la vista fugace della mutilazione genitale che offre prospettive diverse all’affermazione per cui il vampiro non sarebbe una ragazza. Il tema dello smorzamento della tensione sessuale è poi indebolito dal fatto che Owen non sembra affatto immune (come il suo più infantile coetaneo Oskar) all’esplorazione del desiderio (Owen scruta nudità e segreti intimi della sua vicina, con un cannocchiale). Infine, manca del tutto l’allusione al rapporto omosessuale del padre separato: anzi, da una telefonata della madre si potrebbe desumere che il padre viva con un’altra donna.
Che la bambina vampiro inizi Owen alla violenza e dunque all’età adulta è innegabile. Ma la suggestione metaforica (Eli come riflesso di Oskar) non trova qui i necessari (seppur deboli) appigli testuali che la rendevano concreta (in Let me in, l’arrivo e la partenza di Abby non sono introdotti dal riflesso di Owen sulla finestra della cameretta, come nel film svedese).


Più in generale, la stilosità ovattata di Lasciami entrare qui è più contenuta, animata da un approccio meno obliquo e lirico, più pieno e più scoperto (persino il suggerimento subliminale sull’identità del vecchio accompagnatore della bambina – che, cioè, si tratta di un ex dodicenne legatosi a lei – è reso esplicito da alcune fotografie). Di conseguenza, i contrasti con gli squarci violenti sono meno accesi e il risultato complessivo è più omogeneo e meno insolito. Ciò rende il film di Reeves più risolto e forse (da un certo punto di vista) anche più convincente, ma ciononostante (e anzi proprio per questo) meno suggestivo.
Degne di nota sono però anche le addizioni originali. Reeves s’inventa un contesto geotemporale (l’America profonda e monotona della provincia dei primi anni ottanta) e politico-culturale (il discorso di Reagan sull’“Impero del Male”, l’estrema religiosità della madre di Owen – difficile non pensare a Carrie), in cui le sperimentazioni del piccolo pre-adolescente con il “male” (nemico assoluto della Nazione, della Chiesa e della Famiglia) assumono una nota sovversiva. La crescita di Owen è, più tipicamente, anche una ribellione contro i valori in cui è immerso (una ribellione timida e così radicale che neppure il laicissimo padre, al telefono, riesce a cogliere bene).
Insomma, Let me in svolge bene la sua limitata (ma difficile) funzione, con un approccio che punta a normalizzare alcuni spigoli, facendo un film meno involuto ma anche meno interessante dell’originale. Quasi del tutto inutile, quindi un po' interessante.