TRAMA
Marc, appena trasferitosi in una nuova scuola di Los Angeles, fa amicizia con Rebecca, che lo introduce nel suo giro di giovani fashion victim ossessionate dalle celebrità. Insieme, per gioco, gli adolescenti iniziano a introdursi di nascosto nelle ville di Paris Hilton e altre star, rubando vestiti e scarpe per migliaia di dollari.
RECENSIONI
Il cinema di Sofia Coppola sta tutto dentro una gabbia dorata: le sue protagoniste sono adolescenti (o pre-, o tardo-) intrappolate nel proprio privilegio. Un gabbia che certo Sofia conosce bene, cresciuta in cotanta famiglia di cineasti, apparsa sul grande schermo quando era ancora in fasce. Nella sua ultima fatica la gabbia si rifrange per dozzine di volte nel riflesso di altre magioni/prigioni scintillanti, le megaville losangeline delle stelle (più che altro stelline) del cinema: case enormi destinate a restare vuote per gran parte dell'anno, che diventano glitterati depositi di merce costosa. Già in Somewhere la Coppola si era riavvicinata al vivere quotidiano dei protagonisti dello spettacolo, tratteggiando il rapporto fatto di presenze intermittenti tra un attore e la figlioletta; il corto circuito diventa più smaccato in The Bling Ring, al punto che all'inizio del film, nel club vip frequentato dalle ragazzine, compare addirittura l'attrice feticcio Kirsten Dunst nei panni di se stessa. Ricalcando fedelmente le vicende di cronaca cui il film è ispirato (la sceneggiatura dell'autrice si basa sull'articolo di Nancy Jo Sales per Vanity Fair che riassume i misfatti della banda di teenager svaligiatori), nel finale almeno una delle protagoniste chiude il cerchio diventando a sua volta vip di bassa lega, star/meteora di un reality a lei dedicato. Meccanismi stantii di uno showbusiness malsano che Sofia forse conosce bene e certamente stigmatizza, ma nelle ultime due opere pare aver smarrito la grazia dello sguardo e, soprattutto, l'empatia con le proprie creature ingabbiate. Piccole donne in cattività erano le vergini suicide recluse dai genitori intransigenti, la straniera nullafacente smarrita in un hotel di Tokyo, la sovrana bambina esiliata nella reggia di Versailles. Le iperattive, ipercaffeiniche ma annoiatissime cleptomani per sfizio sono caricaturali e innaturali, osservate con ironia fin dalla prima inquadratura. L'unico cui è concesso un minimo beneficio del dubbio è il componente maschile della gang, ragazzo sensibile col vizietto delle scarpe da donna, la cui voce narrante è uno dei tanti passi falsi di The Bling Ring. La sua voce off, oltre a far scattare una immediata ma incongrua assonanza con Il giardino delle vergini suicide, ci induce a credere che la vicenda sia narrata dal suo punto di vista, ma così non è: lo sguardo su Marc e le sue viziate amichette non potrebbe essere più esterno e connotato da un giudizio negativo. Ce lo dicono le reiterate, estenuanti riprese delle telecamere a circuito chiuso nelle ville dei vip, i cui inserti verdognoli e sgranati costellano il film; ce lo dicono le inquadrature sui volti adornati di targa identificativa quando vengono arrestati e l'assillante presenza dei loro profili Facebook: delle vite di questi ragazzi alla Coppola nulla interessa, tanto meno può interessare allo spettatore.
Se i contenuti lasciano perplessi, anche a livello formale l’autrice inciampa in se stessa: il loop, forma su cui tutto il film è inchiodato, si trasforma da stilema coppoliano a sterile gioco privo di significato. Tutte le opere precedenti della Coppola erano intessute, in modo non banale, di ripetizioni e movimenti senza direzione: le sorelle Lisbon come Maria Antonietta, padre&figlia in Somewhere come i due estranei di Lost in Translation, tutti giravano a vuoto, si annoiavano con stile, erano intrappolati nella reiterazione annoiata. La Ferrari che disegnava cerchi nel deserto californiano era simbolo di condizione esistenziale irrimediabilmente bloccata; il loop che occupa tre quarti di The Bling Ring sembra simboleggiare solo il blocco autoriale della regista. Il circolo vizioso di “ricerca indirizzo delle star/incursione nella casa con relativo stupore per la pletora di beni di lusso/fuga frenetica” si ripete una quantità eccessiva di volte senza alcuna variazione, a suon di accattivante musica discopop. La macchina da presa, nonostante la voce di Marc cerchi momenti d’introspezione, nega la complicità ai protagonisti: quando entra nel loro privato è comunque per far sorridere lo spettatore. Si veda la sequenza in cui Marc si abbandona alla gioia di indossare, nella sua camera, le decolletè rosa shocking rubate (successivamente oggetto di scherno anche durante il sequestro da parte della polizia). Si riveda, per contro, la grazia di una sequenza di Marie Antoinette che perfettamente descriveva l'abilità di Sofia coppola nel raccontare l’adolescenza, ovvero quella in cui la giovane regina lascia una tediosa partita a carte per ritirarsi nella sua stanza, dove non la vediamo fare altro che sorridere e guardare nel vuoto: un sogno a occhi aperti di ragazza innamorata, che l’adesione dell’autrice pare far materializzare sullo schermo.
Per certi versi l’opera coppoliana più simile a The Bling Ring è uno dei primi cortometraggi di Sofia, Lick the Star del 1998 (http://vimeo.com/37774577). Lì un circolo ristrettissimo di ragazzine delle scuole medie, guidato da una magnetica fanciulla con troppo rossetto, inventava il tormentone “Lick the Star” (anagramma imperfetto di “kill the rats”) come manifesto di appartenenza da sfoderare contro compagni di scuola antipatici o perdenti, ma anche sintesi di un presunto e irrealizzabile piano criminale per fare fuori i suddetti soggetti (uccidendoli come topi, quindi col veleno). Il tutto era narrato dal punto di vista di una delle ragazze, elemento più debole del “Lick Ring”, testimone non passiva del degenerare di una crudeltà tutta infantile. Racconto di formazione inquietante e fulminante, il corto in 14' riusciva a dire delle dinamiche di attrazione e formazione del "branco" assai più di quanto provi a dire The Bling Ring in 90' di estenuanti giri in auto a ritmo di Kanye West e incursioni nel boudoir leopardato di Paris Hilton. Il tormentone Lick the Star tra l’altro nasceva dalla lettura del romanzo Flowers in the Attic della regina del gotico anni 80 Virginia Andrews: la storia di quattro fratelli rinchiusi crudelmente in una soffitta da una serie di parenti psicopatici o puramente malvagi e costretti a crescere senza luce del sole in uno spazio angusto che deforma il loro sviluppo fisico e psicologico. Non sappiamo se la citazione letteraria della Coppola nasca da una reale presenza dell’opera nel programma scolastico delle scuole medie negli States (se così fosse non sapremmo se definirla scelta illuminata o totalmente folle) o se voglia essere un ammiccamento alla sua poetica di adolescenze recluse in gabbia; la deformazione sembra essere al centro anche di The Bling Ring, dove a fare da contenitore sono i social network, la tv, le case di genitori assenti (o, dove presenti, ridotti a figure diseducative come la Leslie Mann madre degenere e ossessionata dai manuali di automotivazione). La regista però si muove con ambiguità crescente in questo territorio: autrice da sempre amante di un inventario pop e modaiolo come complemento dei suoi ritratti di piccole donne (le Converse rosa di Marie Antoinette), indugia con compiacimento irritante sulla miriade di scarpe Loboutin e borse Prada. Eccessivo perfino se si tenta di ricondurlo alla classica costruzione da heist movie (cosa che The Bling Ring è solo sulla carta) per cui lo spettatore è portato per pura suggestione a entusiasmarsi per il successo dei colpi messi a segno. Progressivamente la regista scivola in un oscillamento ozioso fra la morbosa attrazione e la blanda denuncia verso l'eccesso delle ragazze (che bevono, si drogano, si infilano in gonne microscopiche per provini di dubbia finalità) che, filmate nella luce del compianto Harry Savides (morto durante la lavorazione del film, che è dedicato alla sua memoria), risultano sempre graziose e provocanti come fatine sbronze. Il distacco ironico che la Coppola non abbandona mai, mescolato al compiacimento di riprendere la bellezza evanescente delle ragazze, riproduce su grande schermo un meccanismo di attrazione/repulsione fine a se stesso simile a quello creato da show televisivi come Jersey Shore. Quel genere di piacere perverso che si produce dal rimirare l’altrui idiozia; la superficialità mostruosa, l’adorazione per personaggi famosi di scarso valore, l’entusiasmo per l’ostentazione del lusso e della pacchianeria, il rituale della discoteca come occasione sociale totalmente priva di reale socialità, sono tutti tratti che accomunano i Guidos di Mtv alle esagitate adolescenti del film della Coppola. Il meccanismo, in minima parte, prende le mosse da un’ispirazione vicina a quella di Harmony Korine per Spring Breakers. Korine però portava avanti un discorso lucidissimo, in cui le teenager erano crudelmente vittoriose e puntavano la pistola, armata del proprio deviatissimo orizzonte culturale, contro lo spettatore stesso, annullando ogni possibile moralismo (anzi sbeffeggiando ogni moralismo, a partire da quello del cristianesimo bigotto). La Coppola si ferma molto prima, anzi, replica il rapporto di forza proposto da tanta real tv, che letteralmente offre casi umani sul piatto di uno spettatore in pigra posizione di vantaggio, libero di giudicare e deridere il comportamento di chi vede sullo schermo. Un cinema premasticato, eppure indigeribile.