
TRAMA
Anni 40: Bucky Bleichert e Lee Blanchard investigano sull’omicidio di Elizabeth Short, un’attricetta hollywoodiana il cui corpo è stato orrendamente mutilato.
RECENSIONI
Il romanzo da cui il film è tratto parte da una storia vera: nel 1947 il caso Black Dahlia, il brutale assassinio di una starlet hollywoodiana, tanto orrendo da indurre le autorità a non divulgarne le immagini, sconvolge gli USA; il primo omicidio della storia ad essere gestito dai media rimane a tutt'oggi irrisolto. L'opera di Ellroy, che intorno a quel delitto ricama una vicenda fittizia, è complessa e stratificata, nel libro convivendo molte linee narrative ben distinte che (Chandler docet) si incrociano con opportuna puntualità: la storia dell'incontro e dell'amicizia tra Lee e Bucky (un lungo preambolo che ci conduce alle successive complicazioni sentimentali - il rapporto triangolare con Kay -), l'omicidio di Dalia Nera e le relative indagini (con fitti intrichi di sottotrame, compresa la vicenda umana della vittima), il passato di Kay e il suo rapporto con DeWitt, il rapporto tra Lee e Madeleine, la scomparsa di Lee e la ricerca di Bucky (con brusco cambio di scenario: Tijuana). E' importante la precisazione relativa alla complessità narrativa del romanzo poiché questa consente di apprezzare vieppiù l'abilità con la quale lo sceneggiatore Josh Friedman (che ha lavorato sullo script per due anni) condensa i temi fondamentali, distillando l'essenza del testo senza compromettere la tenuta della narrazione. L'adattamento è efficace nella scelta dei percorsi da seguire, drastico nel tagliare alcuni frammenti che sembravano invece scritti per il grande schermo, nel modificare o semplificare certi passaggi per puntare decisamente sull'approfondimento del carattere dei personaggi a tutto scapito (non è una critica, è una constatazione) del lato "investigativo" della faccenda (è evidente come a De Palma, e ad Ellroy del resto, non importi il whodunit quanto misurare l'impatto che il delitto ha sull'ambiente descritto e sui protagonisti): lo stesso porre il corpo esanime della vittima lontano dallo sguardo degli spettatori, sorta di quinta visiva e mentale che inquadra la vicenda più che centrarla, insistendo piuttosto sul diretto confronto con la donna viva (i provini [1])ne è ulteriore dimostrazione. Se è vero poi che l'ossessione necrofila del protagonista è più intuita che decodificata è vero d'altronde che le fitte implicazioni che il personaggio ha con gli altri caratteri, riesce a far emergere, con bella disinvoltura e nei momenti cruciali, la loro pervicace tendenza a mentire, il loro essere sempre, e per motivi differenti, compromessi con la realtà nella quale sono calati: in questo senso Bucky risulta progressivamente e coerentemente una marionetta manovrata per scopi oscuri che verranno infine a galla. Cosa può aver attirato il regista (l'adattamento nasceva per David Fincher che avrebbe dovuto dirigerlo nel 1997) sembra piuttosto chiaro: Hollywood come fabbrica di corpi, il cinema - anche pornografico - come sfondo e chiave di lettura [2], l'ossessione Vertiginosa per la riproduzione in vita di un cadavere che tormenta l'inconscio (Madeleine come body double della Dalia Nera), la torbida sessualità, temi cari al Nostro che però l'autore lascia delicatamente sottotraccia, l'affresco, splendidamente fotografato da Zsigmond, avendo un respiro meno soffocante e personalizzato del solito. In effetti anche se Ellroy ci tiene a precisare che "il fottuto noir è fottutamente morto" (nella letteratura), Black Dahlia si pone, anche ed ovviamente, come un omaggio, molto rispettoso e poco giocoso (questo ha deluso chi si pone davanti allo schermo con le famose, deprecabili aspettative) a un'era del cinema, a una galleria di archetipi, a un'atmosfera e a un genere: dalle dissolvenze a tendina, dalle movenze esasperate degli attori (i loro toni, i loro corpi - perfetta le scelta di ciascuno di essi, in particolare di Hartnett che ha presenza, espressioni e caratteristiche fisiche perfette per il suo ruolo -), alla scritta The End che campeggia classicamente nel finale, tutto risulta funzionale a questo discorso finemente ripropositivo. Così la voice over, che è una diretta emanazione del racconto ellroyano, svolto in prima persona, risulta di fatto elemento ulteriore lavorato per mantenere il film sul solco della tradizione alla quale si rifà direttamente. Su questa base pregna De Palma naviga magistralmente, dirigendo con solida maestria il suo splendido cast, concedendosi qualche numero (perfettamente integrato e mai isolato virtuosismo): la straordinaria scena nel locale lesbo (KD Lang che canta in smoking), il bellissimo piano sequenza dall'alto (la mdp parte da una donna, passa a seguire un'automobile prima e una bicicletta poi, per planare sulla lite della coppia che cammina), la mirabile soggettiva (lo sguardo di Bleichert) in casa Linscott - uno dei momenti più memorabili del film - scena che fa virare l'opera su un registro grottesco efficacissimo nel rendere appieno la follia di questa dissimulata famiglia Addams - sequenza apparentemente demenziale ma carica (lo dirà il senno di poi) di indizi -, la morte di Lee, riconoscibile firma all'intero lavoro.

Non inganni lo sfarzoso armamentario rétro che ingemma The Black Dahlia (voce over rigorosamente confidenziale, sontuosità dei flashback, asfalto bagnato, fotografia virata in seppia, Dark Passages in soggettiva e tendine a tutto spiano): la pellicola esce quasi subito dai percorsi del noir classico e si inoltra con decisione nei territori squisitamente depalmiani del fake movie. Falso movimento, falso noir, falsa ossessione: la vicenda di Elizabeth Short diventa infatti il pretesto per una riflessione 'postmoderna' (virgolette cautelative) sull'improduttività del vero e sulla speculare prolificità del falso. Se nella prospettiva classica il proprium dell'essere umano è il riso, in quella depalmiana è senz'altro la menzogna: 'Le persone mentono' sentenzia Bucky in voce over verso la fine del film. Il rovesciamento è totale: a ridere sono i morti, cadaveri ghignanti che visualizzano icasticamente il carattere macabro, spettrale della verità. Il romanzo di Ellroy diceva altro, parlava di un fantasma che si insinuava nei personaggi e li abitava ossessivamente, costringendoli a fare i conti col proprio passato, le proprie responsabilità e le proprie ambizioni. L'indagine possedeva unurgenza bruciante, rivelandosi sempre più stratificata e complessa, ma non smarrendo mai la consapevolezza che la soluzione del caso, per quanto drammatica e lacerante, fosse di vitale importanza. Il precipitato psicologico di questo intreccio di temi aveva un nome preciso: ossessione. De Palma, al contrario, si preoccupa di devitalizzare la struttura profonda dell'ossessione ellroyana, depotenziandola psichicamente e rappresentandola caricaturalmente nel personaggio di Blanchard, sfacciata macchietta. Il lavoro di destrutturazione non coinvolge soltanto il personaggio interpretato da Aaron Eckhart: tutte le dramatis personae sono raffigurate come generatrici di menzogne, produttrici di mondi immaginari, puri meccanismi narrativi. L'uscita di scena di una di loro non provoca sentimenti di dolore o sconforto nello spettatore, ma un forte senso di frustrazione per la scomparsa di ulteriori possibilità narrative, di sorprendenti colpi di scena. Finché c'è vita c'è menzogna (e viceversa), verrebbe da dire, ed è chiaro che questa riscrittura falsificante del romanzo di Ellroy - al di là dei macroscopici stilemi visivi che la connotano (acrobatici piani sequenza, eclatanti carrelli circolari, eleganti panoramiche orizzontali: all'appello non manca che lo split screen) - è autenticamente e profondamente depalmiana. Tuttavia, anche se l'aspetto teorico di The Black Dahlia risplende per lucidità e coerenza, è la tenuta drammatica a non persuadere: privata della sua spinta vitale, l'indagine gira spaventosamente a vuoto, la tensione spesso latita e la credibilità della relazione tra Bucky, Kay e Leland (complice un miscasting esemplare: nessuno dei tre attori sembra in parte) rasenta lo zero. Anche la vena progressivamente allucinatoria che si impossessa di Bucky durante la sua ricerca solitaria risulta posticcia e non integrata nel tessuto filmico. In definitiva il film si sorregge sulla maestosità di alcune sequenze - l'incontro di boxe, la scoperta del cadavere di Elizabeth (una Mia Kirschner luminosa) e l'omicidio di Lee su tutte - e sull'indubbio fascino delle atmosfere create dai giochi di luce e dalle focalizzazioni mobili di Vilmos Zsigmond, ma complessivamente The Black Dahlia resterà negli occhi e nel cuore di chi scrive come un noir preziosamente inesploso.

Le premesse non erano buone. Un libro molto bello di James Ellroy, pieno di spunti affascinanti per il cinema, ma decisamente rischioso da trasporre. Un regista come Brian De Palma che ultimamente aveva zoppicato vistosamente prima di cadere sgangheratamente in Femme fatale. E poi le notizie allarmanti sul cast: prima di tutto, nella parte del protagonista, uno come Josh Hartnett, solitamente meno espressivo di Ben Affleck, poi il poco convincente Aaron Eckhart, la molto in voga ma un po’ sopravvalutata Scarlett Johansson, infine la bravissima Hilary Swank difficilmente immaginabile come sordida dark lady. Invece praticamente tutto è andato bene. Fin dalle prime sequenze il bellissimo colore della fotografia porta lo spettatore direttamente nell’America anni Quaranta, ricostruita con splendida scenografia e costumi. Da quel momento in poi l’universo di Ellroy non dà tregua: vite sprecate di poliziotti corrotti e patetiche aspiranti attrici destinate a letti squallidi ed obitori si mescolano tra polvere e sangue, sesso e ambizione, corruzione ed infelicità. La pellicola ha il pregio di mantenere al centro della trama (persino più di quanto faccia il libro) il cruciale rapporto tra i due poliziotti, amici, colleghi, rivali. E riesce nella difficile impresa di gestire il complicatissimo intreccio, anche se nel finale, con la risoluzione del giallo, ripresenta il difetto del romanzo che ingarbuglia e perde qualche filo. Solo sfiorato, per i più attenti, il risvolto incestuoso nella terribile famiglia degli assassini, per il resto ben rappresentata per eccesso fin dall’inizio, con quella presentazione fatta di mostruosi primissimi piani. Ma tutti i personaggi fangosi di questa storia occupano in modo incisivo il loro posto, lasciando trasparire le loro ossessioni dietro un’irrinunciabile nuvola di fumo e graffiandosi a vicenda fino ad un’annunciata distruzione. Cruento come previsto, il film gode nel calcare la mano e nel fare piazza pulita con coraggio di ogni speranza e consolazione (alla faccia della scena finale). Ma non è maniera, quanto piuttosto una realizzazione vigorosa di una storia fedelissima ad un genere.

Well, then that's no McGuffin! So you see, a McGuffin is nothing at all.
(Alfred Hitchcock)
La linea di confine tra Lynch e De Palma, oggi, è soprattutto questione di stile: surreale e allucinatorio il primo, scientifico e ricamato l’altro, ma il risultato evidenzia una rete di solari convergenze sulla medesima strada, nient’affatto perduta, che i due cineasti percorrono con passo diverso per poi ritrovarsi alla meta. Entrambi sembrano talvolta tessere una trama, piegarsi alla lineare esposizione dell’evento, per poi abbandonarla sfacciatamente, presi dal movente unico di coltivare le proprie ossessioni. Non serve ricordare il legame di sangue tra Femme Fatale e Mulholland Drive per individuare la fratellanza eterozigote tra i registi, una protesi della depalmiana teoria del doppio, di cui The Black Dahlia dichiara l’intento: la sequenza dello smascheramento del colpevole (Bleichert accusa a turno i membri della famiglia Linscott) è una parodia sovraccarica e iperbolica che dice come l’assassino possa davvero essere chiunque, risultando l’ombrello pretestuoso del plot la regola primaria del gioco che gioca De Palma. Se il McGuffin non è niente, meglio allora concentrarsi sulla griglia di corrispondenze dietro il tendaggio esangue del narrato, che ricalcano la firma dell’autore suggerendo continui percorsi di senso; il corpo attoriale, vedi Banderas e Romijn-Stamos nel film precedente, è volutamente un fantoccio da rivoltare – tanto che Johansson reca in calce l’autografo del regista, BD come Black Dahlia ma anche (quasi) come Brian De Palma – nella catena dell’imbroglio che si allunga perfino sulla voce off (Bleichert non vuole perdere l’incontro, infatti lo perde). La traccia cinematografica, nella ridda vorticosa di citazioni dal cardinale Vertigo a Viale del tramonto (la trasfigurazione temporale dell’amante), non è il tappeto per un esercizio di stile ma semina torbidi indizi (la battuta di Via col vento come presagio sul destino dei protagonisti), avvisi inquieti (il porno post-mortem), forme allarmanti (il ghigno del pagliaccio, anticipato dal sorriso restaurato di Bucky). Muovendosi esteriormente da materia altrui, l’opera sta in piedi laddove barcollava A History of Violence in cui Cronenberg, altro flagellatore della norma e costruttore del proprio meccanismo, trattiene il suo manuale e lo anestetizza per rinchiuderlo al cappio psicologico; De Palma invece, in trasferta nella regione del noir, ne rispetta l’iconografia (primo: nessun personaggio positivo) ma su di essa si getta a corpo libero e rinnovato vigore, a palleggio con un film che esplode nell’ultima parte, che sposa con passione la falsa (falsa, falsa) pista perdendosi nel tunnel degli specchi (ogni donna, viva o morta, è riflesso dell’altra), che lascia nella memoria il più ambiguo degli happy end dove il fantasma della necrofilia entra assieme al protagonista nella tana degli amanti. Non regge l’accusa di prostituzione per il regista, perché il tocco è palesemente verificabile (l’omicidio di Blanchard, incantevole saggio di prospettiva); De Palma fa un film gratuito al goniometro, provocando un terremoto per segnalare la svolta narrativa, dimostrando che il plot finisce dove comincia l’immagine, nella consapevolezza intima che un inganno sincero sarà sempre superiore alla sincerità ingannevole di chi vuole spiegare tutto.

Di fronte a un autore come De Palma, che forse più di chiunque altro edifica un'epitome del proprio stile a ogni nuova opera (talora spingendo il gioco fino a disinteressarsi del film; è il caso di Femme Fatale, la sua opera più teorica dal tempo di Omicidio a Luci Rosse), le reazioni variano fra due estremi: i fan turiferari esaltano i movimenti di macchina, gli split screen, la genialità del cinema-cinema e del meta-cinema, e ignorano le furbizie non sempre oneste della messa in scena, le sconnessioni della sceneggiatura, l'opacità di personaggi cruciali, la frequente inconsistenza drammatica (tutti difetti qui presenti all'appello); gli scontenti in servizio permanente lamentano che De Palma “non sa (più) raccontare”, “si ripete”, e scoprono – ogni volta – che due scene su tre sono copiate da Hitch, la terza da un De Palma anteriore che a sua volta copiava Hitch. Il tormentone è il medesimo, impetoso e costante, da un quarto di secolo (almeno da Vestito per uccidere). Per sfuggire all'impasse, possiamo fare alcune osservazioni banali, ma almeno pertinenti all'oggetto dell'analisi. Innanzitutto, siamo di fronte a un caso di piena accettazione delle regole del noir: The Black Dahlia appartiene al novero dei film “classici” (o “neoclassici”, dove il prefisso segnala la distaccata e consumata consapevolezza nell'uso del linguaggio di genere) di De Palma; la famiglia di Scarface, The Untouchables, Carlito's Way. L'adozione del genere prescelto e del suo codice – salvo innestarvi le proprie cifre autoriali; una per tutte, il dolly che volteggia e plana sulla scena del ritrovamento del cadavere – è peraltro un'evenienza più frequente di quanto comunemente si ritenga, nella filmografia del regista; le manipolazioni iperboliche, per contro, sono alquanto frammentarie. Del noir, il film possiede tutte le note peculiari (un romanzo di Ellroy gli fa da canovaccio): il narratore intradiegetico, le donne fatali (la bionda e la mora), l'ambiente corrotto della polizia, i bassifondi cupi e i quartieri loschi o in rovina contrapposti alle dimore dei torbidi padroni della città, i colleghi di missione (uno ingenuo, l'altro astuto ma apparentemente onesto e altruista), il senso di vite irrimediabilmente gualcite, fuori posto e fuori asse; tutto questo, il film lo rende molto bene, col concorso d'una fotografia cangiante e funzionale nel contrastare i diversi ambienti. Stupefacente è che vi riesca senza il concorso di attori credibili: con due eccezioni (la conturbante Swank e la tragica Kirshner), gli interpreti sono d'una monotonia esasperante (Hartnett ed Eckhart), o spingono al ridicolo la propria mimica (Johansson, troppo maliarda quando fa la maliarda, troppo commossa quando è commossa, ogni espressione un gesso che graffia la lavagna: fasulla dalla prima all'ultima nota); bisogna ammettere che costruire un film lungo e non semplice su tre vettori attoriali inesistenti è una prova di forza da parte del regista (non nuovo a imprese del genere). Ed è una bella, quantunque non nuova, sfida d'autore: dimostrare che gli attori non sono più utili delle marionette. La struttura del noir è poi pienamente congeniale a De Palma, che ne manovra le leve con fredda sapienza (ma è stranamente poco interessato alla follia del personaggio risolutivo, costruito in modo tanto grossolano da compromettere l'Höhepunkt del film), pur utilizzandola solo in quanto corteccia e architettura; e valorizzandone proprio per questo le linee portanti senza farsene soggiogare (spontaneo, ma anche utile, il confronto con l'efficienza tutta interna al genere di L.A. Confidential; acutamente, La Dalia di Brian è stata accostata piuttosto a Chinatown che al film di Hanson). In siffatta struttura, l'autore può inserire con agio le proprie ossessioni tematiche e formali. Inanzitutto, il raddoppiamento e la complementarietà dei personaggi, che a loro volta presentano doppi volti: il protagonista si divide fra due passioni e fra due rappresentazioni della femminilità, e doppia è la sua anima (nel momento decisivo, la gratitudine cederà a una catastrofica e sospetta paralisi, in un gioco di sguardi e di ombre che lascia il segno); diviso e complementare è l'affetto nutrito da Kay verso i suoi due uomini; due sono le ragazze che si aggirano in cerca di fortuna nei meandri bui della Babilonia del cinema; doppi gli scopi di Lee Blanchard nel dare la caccia ai malviventi. Nessuna di queste metà può sopravvivere legata alla sua gemella: la separazione è indispensabile, e trova un correlato oggettivo d'archetipica potenza nella divisione a metà del corpo della sciagurata Elizabeth (è nota la passione del regista per il taglio sanguinoso, il troncamento violento di ciò che sembrava indissolubile, l'accanimento deformante e lo strazio sui corpi delle vittime); e solo una metà può sopravvivere, non senza pagare il prezzo dell'introiezione del fantasma in forma di incubo, messo in abisso e destinato all'infinita reiterazione; qui, il regista ci regala una versione sintetica dei suoi celebri finali che rilanciano l'angoscia. Gelido, manierato? Forse; ma anche di fulminea efficacia. La condanna della e alla visione è un altro leitmotiv del cinema di De Palma: Bucky torna più volte, turbato, a scrutare i provini cinematografici della vittima, le immagini in cui la ragazza rivela tra lacrime e sorrisi un disperato tumulto, una fatale ingenuità, un candore semplicemente abbagliante e folle, e una verità emotiva inaccettabile al regista che la esamina (lancinante il momento in cui, alla richiesta di essere più naturale nella recitazione, si mette carponi e implora l'amato di non abbandonarla): la via d'accesso ai segreti di un'anima. Se è vero che grazie a quelle immagini scoprirà il colpevole, è pure vero che di esse non potrà più liberarsi; l'ossessione di Lee lo ha contagiato, la diagnosi di Madeleine (“hai soltanto lei”) si rivela esatta, e inquina con la sua eco visiva l'apparente lieto fine. Madeleine chiede a Bucky “Ti immagini la scena?” e lui risponde ironicamante “In Technicolor”; e una sequenza de L'Uomo che ride di Paul Leni ricorre ossessivamente nella mente del protagonista: il cinema, antonomasia sineddoche e metonimia della visione, è la nostra condanna.

De Palma ci inchioda, senza scampo, alla lettura metafilmica, assolvendo qualsiasi peccato apparente in un discorso teorico che si genera dall'immagine e si conclude perfettamente in essa, in un processo che più che circolo è coincidenza, e, anzi, più che processo è identità: non c'è altro che l'immagine in De Palma, tutto si risolve in essa, ogni possibile altro livello viene assorbito e cancellato in una splendida e mai così sintomatica superficialità. Che per raccontare una storia si debba ricorrere al già visto (come dimostra l'adesione a temi e stilemi del genere noir), che il mistery si risolva nella visione, che i personaggi siano la solita riproposizione dei modelli che legano Hitchcock a De Palma, simulacri e doppi compresi, espedienti narrativi generatori di false trame, tutto questo è già stato detto, anticipando puntualmente questo mio intervento. Ciò che mi urge sottolineare però è come la dimensione drammatica e quella psicologica siano costrette ad assottigliarsi alla superficialità dell'immagine. De Palma annulla qualsiasi pretesa di motivazione degli sviluppi emotivi dei personaggi, tanto da renderli, in un contesto drammatico, posticci o ridicoli (si veda ad esempio l'ossessione di Blanchard): non c'è scavo psicologico alcuno, i corpi attoriali si limitano a rappresentare, a richiamare, corpi altrui, già visti, rimanendo confinati nel ruolo, (per non dire nell' icona); non c'è ossessione, se non quella unicamente mostrata e non giustificata da un percorso interiore, c'è semmai, in Bucky, uno sguardo incrostato, giustificazione, quasi inconsapevole, dei suoi comportamenti. Questa che goffamente abbiamo definito, per la superficialità della sua natura, incrostazione è il corpo della Dalia, corpo morto che vive solo nelle immagini (ogni riferimento ad una incarnazione (?) del 'Cinema' è evidente), sfigurato in un sorriso che deriva da un'altra ossessione scopica, da un'altra incrostazione (quella relativa a 'L' uomo che ride' e al vortice che gira intorno alla pellicola), in una risoluzione per cui l'aggettivo 'metacinematografico' necessiterebbe dell'esponente. Bucky, che con la sua voce narrante racconta della morte per saturazione del luogo cinema (come, nello specifico, Omicidio in diretta ci diceva di quella della dimensione realizzante del piano-sequenza, Femme Fatale di quella dell'adesione a qualsiasi livello di realtà), rinuncia a diventare protagonista: lo fa non coinvolgendoci emotivamente, come non lo è egli stesso- marionetta che si muove e sente a comando- lasciandoci freddi, imbarazzati o storditi di fronte ad una trama che si confonde (come in una lettura poco attenta, superficiale, di un romanzo di Ellroy i personaggi si confondono, non si riesce a stare dietro agli eventi, non si è capaci di attribuire loro il giusto peso), ricordandoci, con l'allucinazione visiva che chiude il film che anche quel corpo morto, da cui l'intera opera trae vita, non è stato che una visione, una semplice e inestirpabile incrostazione (come si può credere, davanti ad un personaggio così monocorde e bidimensionale, che si tratti di vera ossessione?). De Palma ci mette ancora una volta di fronte alla morte del cinema come narrazione del verosimile, accoltella mentre mette in scena, nel paradosso di chi è costretto (materialmente: per continuare a fare cinema e a lavorare) a rifugiarsi nella storia mentre se ne emancipa. La stessa storia, certo. Eppure vorremmo non smettesse mai di raccontarcela.
