INTRODUZIONE
Franto e mobile, estatico e divagante, il cinema di Bertrand Bonello è un’Odissea identitaria che non conosce il paradigma del racconto di formazione. Una danza di corpi che s’agitano per non rimanere cristallizzati in etichette, il divincolarsi scomposto del soggetto per sfuggire alla trama della psicologia, il conflitto tra carne e società, la violenza con cui la seconda determina il destino della prima (cronenberghianamente, ammette egli stesso in una sorprendente analogia). Quello di Bonello è cinema del reale: perché guarda al mistero opaco della semplice presenza, ai corpi nello spazio e nel tempo, e scandaglia – evocandolo tramite lo specifico del cinema – il fantasma che aleggia sulla realtà, la messa dei desideri che lega i personaggi, la viva tensione immaginaria che li muove. Frammenti irrelati, scene indigeste ai manuali di sceneggiatura si associano al montaggio, creano una dimensione indifferente alle logiche realistiche della cronologia, della causa e dell’effetto, per cercare una visione differente, sottratta alle abitudini, agli schemi interpretativi, in un cinema che rigetta le formule e cerca la purezza, piana e violenta, delle atmosfere.
Il cinema di Bonello è, sempre, un tentativo, un’incertezza in attesa di una verifica che non può che essere nello spettatore. Per questo è antintellettuale e sensoriale, per questo le parole, nei suoi film, non sono veicoli preferenziali di significato, ma un elemento, come un altro. Per questo il cinematografo e la sua Storia sono urgenze che non si sedimentano tanto sul suo sguardo, ma sugli occhi e il cuore, sul mistero irriducibile del mondo dei suoi protagonisti: la sua cinefilia è delegata, la sua opera parte necessariamente dall’uomo, non dal cinema, rimanendo estranea dunque alla poetica di registi obliqui, tra verità e citazione, come Ozon, Donzelli, Honoré, ai quali solo superficialmente, per un diffuso sentimento nouvelle vague, il nome Bonello si potrebbe accostare. E se la struttura, il respiro, sono quelli di un cinema anticanonico, garreliano, dove la narrazione è esplosa e le scene madri sono disperse, è il carattere affettivo a meravigliare, imploso dentro a corpi che faticano a trattenerlo, in dialogo con accorgimenti, dettagli, aperture musicali, che dalla sobrietà bressoniana giungono al romanticismo esibito.
Questo musicista convertito alla composizione visiva, tenacemente accudito dalla fotografia della compagna Josée Deshaies e sfacciatamente assecondato dalla spigolosa fisicità dell’attore “non-feticcio” Laurent Lucas, predilige il movimento trattenuto dalle immagini alla frenesia servile della marcia narrativa. Movimento di corpi in spazi chiusi, spesso abbozzi di movimento (la danza sur place di Romane Bohringer in Quelque chose d’organique, la pacatezza estatica di Mathieu Amalric in De la guerre) che suggeriscono lavorio interiore, sensibilità e abbandono. Tracce di un processo intimo letteralmente infilmabile, increspature appena accennate sulla tela dell’inquadratura che offrono una direzione senza indicarla, propongono una traiettoria senza imporla: quella dell’identità unica e irripetibile dei soggetti ripresi. Ecco perché questi germi di movimento possono improvvisamente scatenarsi in balli vertiginosamente accelerati (la danza in vorticoso fast forward di Jérémie Renier sulle note di Marcia Baila dei Rita Mitsouko in Le Pornographe) o culminare in gesti oscuramente sacrificali (il prefinale di Tiresia): ciò che conta è esclusivamente il loro peso specifico, la loro umanissima, insondabile profondità. L’imperscrutabile altrove dal quale provengono.
Spazi chiusi, si diceva. Ma non spazi di squilibrio o alienazione. In questo cinema liberamente aritmico in cui ogni sequenza reimposta il metronomo e genera un tempo singolare, i microcosmi a tenuta stagna configurano spazi di stabilità e comprensione. La chiusura non coincide banalmente con l’oppressione, ma fornisce l’occasione di un confronto serrato con l’altro e l’osservazione minuziosa – o meglio la viva esperienza – di stati dell’essere ignoti al soggetto che li prova: nel chiuso degli spazi, il chiuso della coscienza si apre a territori di esistenza inesplorati. Quelque chose d’organique: la casa nella periferia di Montreal diviene il laboratorio in cui osservare in vivo il disfacimento molecolare dell’amore di Marguerite e Paul. Le Pornographe: la camera di Jacques si tramuta in una cella monastica nella quale, tra reminiscenze bressoniane e sentori quasi petrarcheschi, l’appesantito pornografo riflette sul passato e medita sul presente, consegnando le residue speranze all’avvenire. Tiresia: nell’angustia di un carcere domestico, Terranova scruta dallo spioncino l’irreparabile degradazione della copia perfetta, l’appassire della rosa presa in ostaggio. E si ha addirittura quest’impressione paradossale: più gli spazi si riducono più la viva esperienza della conoscenza si amplifica, s’intensifica. Come avviene in De la guerre: non solo l’isolamento giubilatorio nel Reame, ma persino l’asfissiante reclusione in una bara diventa anticamera del sublime (non come concetto astratto, ma come esperienza sensibile). Infine L’Apollonide: casa chiusa per antonomasia, il postribolo parigino si spalanca in una serie di pannelli che restituiscono ai soggetti femminili quell’identità e quella dignità negate loro dalla società e dalla scienza. Se la maison close imprigiona le ragazze nell’istituto sociale della prostituzione, Bonello, con i suoi Souvenirs, le sprigiona cinematograficamente. Detto altrimenti, nel cinema di Bonello la coercizione ambientale non comporta repressione individuale o riduzione a oggetto di consumo visivo, ma, al contrario, acuisce la sensibilità e precisa l’identità (non è fortuito che nel suo cinema persino gli esterni siano ripresi come fossero interni: non ambienti che contengono il soggetto ma frammenti di spazio che si dispiegano attorno al soggetto). Spazi chiusi, luoghi dell’essere.
A Cura di:
A. Baratti & G. Sangiorgio