
TRAMA
In un paese imprecisato dell’Africa Occidentale, l’infanzia rubata di Agu, bambino-soldato sfuggito al massacro della sua famiglia e arruolato da una milizia locale.
RECENSIONI
Più che un documentario socio-politico su una delle innumerevoli micro-guerre che insanguinano l’Africa contemporanea, Beasts of No Nation è un racconto d’iniziazione archetipico e violento, un lucido resoconto della follia umana che, almeno sulla carta, rintraccia i propri padri nobili nei Vietnam War Movie hollywoodiani delle ultime decadi. Il terzo lungometraggio di Cary Fukunaga, tratto dall’omonimo romanzo di Uzodinma Iweala, ruota attorno allo sguardo del suo piccolo protagonista, intrecciando il resoconto cronologico delle vicende di Agu con temi di più ampio respiro – il rapporto fra realtà e finzione, su tutti.
Fukunaga arriva a Beasts of No Nation dopo un romanticissimo adattamento di Jane Eyre e, soprattutto, dopo la trionfale prima stagione di True Detective, riallacciandosi – anche nel titolo – al suo primo lungometraggio (Sin Nombre), storia di fuga e redenzione adolescenziale. Narrato retrospettivamente dal protagonista, il film è diviso in tre parti. La prima e la terza fungono da cornice. Rispettivamente preparano e attutiscono la brutalità del lungo segmento centrale. Nella prima parte, Agu è un bambino come tanti altri – scuola, Chiesa, giochi, famiglia – in un villaggio africano. Cedendo a qualche stereotipo, Fukunaga, anche sceneggiatore, tratteggia un’infanzia povera ma bella. L’irrompere della guerra, in repentino contrasto con i toni da commedia dei primi venti minuti, costringe il protagonista, unico superstite, ad abbandonare tutto. Nel finale, trasferito in un centro di rieducazione, Agu deve riavvolgere il nastro, per provare a ricostruire quel che è stato, forse, irrimediabilmente perduto.
La parte centrale si colloca fra due momenti di fuga senza speranza, prima dal villaggio di origine e poi dall’esercito che l’ha arruolato. Quella di Agu è una discesa agli inferi, che lo vede unirsi, suo malgrado, a un’orda di miliziani guidati da un padre-padrone carismatico, manipolatore, e perverso. Semplicemente, “il Comandante”. E il Comandante, un muscolare Idris Elba, sa bene che nessuno porta a termine i compiti assegnati con la stessa serietà, fierezza, e abnegazione dei bambini. Per una beffarda inversione di ruoli, il fragile Agu si trasforma nella guardia del corpo di un adulto dotato di un fisico e di un ego ipertrofici. Il rapporto, oscillatorio e sbilanciato, fra i due diventa l’asse del film. All’estremo esercizio di forza dell’uno corrisponde la debolezza dell’altro, fino al drammatico confronto in pieno giorno che segna un nuovo capitolo nell’esistenza di Agu.
Apparentemente concentrato sugli eventi esterni, con vaghi accenni a questioni ideologiche, Beasts of No Nation è un’immersione nella mente di Agu, fra accettazione passiva e progressiva presa di coscienza. Quel che c’è fuori è solo una successione di violenze fisiche e psicologiche senza logica apparente, di sopraffazioni sessuali che diventano un’estensione del furor guerresco maschile. L’uso simbolico dei colori, ridotti all’essenziale (il nero della notte, il verde della giungla, il rosso del sangue e della trincea), le sequenze oniriche, i riti sciamanici trasformano la guerra in un grande incubo collettivo, con i soldati adolescenti che vanno al massacro con lo sguardo allucinato dalla droga brown brown, mix di cocaina e polvere da sparo. È sulla forza illusoria del mito guerresco che si basa il potere coercitivo del Comandante, che pennella una realtà a propria immagine e finisce per perdervisi – quasi un’evoluzione deformata della televisione immaginaria, la scatola priva di schermo che Agu e i suoi amici tentano di vendere alle guardie del villaggio.
Girato in Ghana, ma privo di coordinate geografiche localizzabili, volutamente svuotato di punti di riferimento specifici, il film tradisce la propria aspirazione all’universale, attraverso scenari (il villaggio, la giungla, l’istituto) e personaggi (il bambino, il comandante, il politico) tipizzati. Nel tentativo di tenere insieme tutto, il rischio è di cadere in un certo schematismo, di dare troppo per scontato che la rappresentazione visiva della violenza sia sufficiente per mettere in moto l’empatia e generare consapevolezza. Se il film funziona a livello cerebrale, una certa freddezza di fondo permane. E il grande cinema di guerra – quello sulla scia di Full Metal Jacket o di Apocalypse Now – resta un modello irraggiungibile. Con qualche eccezione – basti una scena, quella sì intensa e discreta, in cui Agu, di fronte alla tv in una specie di bordello, incrocia per un istante lo sguardo di una ragazza, poco prima dell’ennesimo massacro.
