
TRAMA
Barbie, che vive a Barbieland, viene cacciata dal paese perché non è una bambola dall’aspetto perfetto. Senza un posto dove andare, parte per il mondo umano e cerca la vera felicità.
RECENSIONI
I primi minuti di Barbie lo inquadrano piuttosto bene: la citazione di Kubrick è tanto smaccata da essere colta (“o” aperta) facilmente da gran parte del pubblico ed è vagamente colta (“o” chiusa). E’ un’autodichiarazione preliminare – sono il film di Barbie ma non sono un film stupido – e cerca di stabilire un contatto col suo spettatore, facendogli provare il piacere del riconoscimento di qualcosa di familiare, invitandolo a giocare, cioè a cercare i riferimenti che arriveranno, e coltivando una sorta di intimità, quasi forgiando la comunità degli spettatori di Barbie, che devono essere tanti e sentirsi tutti a loro agio. Segue la prima didascalia del film (la prima di molte), che spiattella in voice over, senza tanti complimenti, la chiave di lettura della bambola Barbie come ipotetica spinta per l’emancipazione femminile, essendo stata (teoricamente) capace di convincere le bambine che possono diventare chiunque vogliano. E qui arriviamo alla caratteristica, direi, fondante del film nel suo complesso: il sostanziale cerchiobottismo, l’apparente sbilanciamento verso una posizione che poi viene subito contraddetta con altrettanta forza, fino ad arrivare a una soluzione intermedia piuttosto innocua. La ragazzina Sasha, infatti, in un dialogo con Barbie stessa, smonta l’idea positiva presentata inizialmente per accusarla di rappresentare il consumismo sfrenato, un ideale di bellezza irraggiungibile quindi dannosissimo per le bambine e finanche il fascismo. Il film prosegue così, risoluto nel tenere il suo punto progettuale cerchiobottista, appena più chiaro in direzione femminista / antipatriarcale anche se poi, finisce per tratteggiare le figure maschili come ingenui bamboccioni manipolabili (CDA della Mattel compreso), quindi disinnescando, per vie traverse, il portato esiziale del patriarcato stesso (come se gli uomini fossero cattivi quasi a loro insaputa, per inconsapevolezza o stupidità, quasi). La cosa, forse, interessante, però, è che è proprio il sostrato, per così dire, ideologico del film a mangiarsi il film stesso. Il grado zero, del film, la trama e tutto l’apparato scenografico/costumistico Barbie-esco, sono costellati di buone idee ma complessivamente deboli (e ripetitivi). La rappresentazione di Barbieland esaurisce il suo potenziale dopo pochi minuti, insieme ad altre trovate (i talloni sollevati, la Barbie Stramba), l’interazione tra Barbieland e Mondo Reale è gestita in modo approssimativo, anche dal mero punto di vista della coerenza interna, e alcuni passaggi sono sostanzialmente incomprensibili (perché le movenze bambolesche/robotiche nella scena di inseguimento tra il CDA Mattel e Barbie?). Quello che emerge di più, alla fine, sono proprio le didascalie, le spiegazioni, i dialoghi/monologhi quasi didattici, come quello su cosa significhi essere donna (devi essere magra ma non troppo magra, devi adorare essere una madre ma non parlare dei tuoi figli tutto il tempo ecc ecc), quello – poco chiaro, in realtà - in cui Barbie dice a Ken che deve capire chi è o il dialogo tra Barbie e la sua creatrice, a enfatico effetto ma fondamentalmente inconcludente, al netto di un afflato vagamente emotivo su cosa significhi “essere umani”. Barbie è quindi un film complessivamente debole e sfilacciato, che tiene (la punta de)i piedi in molte staffe, disseminato di spunti che rimangono (volutamente?) tali, sporadicamente animato da battute intelligenti ma un po’ avulse dal contesto e da uno humour raffinato (c’è comunque Baumbach) che però suona un po’ datato e rivisto (la voce over che sfonda la quarta parete e puntualizza che Margot Robbie è inadatta a recitare quella parte del copione). Era un’operazione insidiosa fino al rischioso, che doveva rispondere a molte esplicite ed implicite esigenze ma c’è da dire che, nel complesso, è stata portata a termine con professionale, calcolatissima dignità.

Aggiornando e riscrivendo l’immaginario e la mitologia di Barbie, Greta Gerwig sceglie un punto di partenza originale e spiazzante: l’irruzione della morte. Nel bel mezzo di una festa scintillante e glamour, Barbie stereotipo, rivolgendosi alle “colleghe” esclama eccitata “avete mai pensato di morire?”. Questa domanda, dissonante e difforme rispetto al contesto, genera una frattura. E insinua un dubbio. A Barbilandia e nel pubblico in sala. La morte non può essere contemplata, non fa parte della grammatica dell’intrattenimento. Eppure è da qui che parte la regista, da questa apparentemente innocua ma spiazzante situazione. Il tentativo è quello di offrire un corpo - psichico e fisico - a Barbie. Unità di misura del processo di umanizzazione. Un film a suo modo sovversivo e liberatorio. Dentro il rosa pastello degli abiti e delle scenografie, dentro l’universo scintillante di Barbilandia, dentro la cotonatura dei capelli, dentro il mondo zuccheroso e divertente si compiono innumerevoli strappi e si perimetra uno spazio che flirta con la satira sociale, con il pamphlet femminista, con la guerra dei sessi, con una critica di costume che non risparmia affondi e colpi bassi e non cela le crepe di una società ancora profondamente machista e mascolinizzata. Greta Gerwig ibrida i codici, aggiorna i generi tra loro comunicanti: screwball comedy, musical, racconto di formazione, viaggio avventuroso e picaresco.
Barbie è una proiezione, è un giocattolo che allieta le bambine, le orienta, stimola la loro fantasia generando l’immaginario per eccellenza legato alla perfezione della bellezza. Ma Barbie è anche il prodotto del capitalismo più sfrenato, la rappresentazione plastica dell’oggettificazione e della sessualizzazione della donna. L’intelligenza di Gerwig sta nell’aver concepito un film stratificato e su più livelli di lettura capace di parlare in modo ampio ad un pubblico vastissimo (e i risultati straordinari al box office lo confermano), intrattenendolo, e tuttavia lanciando una serie di input sul ruolo della donna nella società, sulla sua indipendenza e/o subalternità, sul male gaze, sul corpo e le battaglie che ogni giorno su di esso si scrivono, sulla libertà individuale, sul potere della scelta, sulla non contrapposizione e sulla necessità di essere chi si vuole. Non è pedante, declamatorio, sentenzioso. È furbo e buffo. Leggero e affilato. Superficiale ma solo nella confezione e nella struttura ‘cartoonesca’.
Alla fine, Barbie, come un Pinocchio moderno, rifiuta di essere la creazione e l’idea(le) di qualcun altro per diventare umana imperfetta e fallibile. Colei che scrive la sua storia, e partorisce le sue idee, anziché restare contenitore di idee altrui. E si fa carne. Che un blockbuster riesca a portare avanti questi costrutti e a creare situazioni in cui una ragazzina grida “fascista” alla Barbie-stereotipo (Margot Robbie) piombata nel mondo reale o che quest’ultima si misuri per la prima volta con una donna anziana scoprendone la vecchiezza, non può che essere visto come un passo avanti nella congiunzione tra cinema commerciale e mainstream d’autore (già cult il prologo kubrickiano che ritrae un gruppo di bambine che, dalla notte dei tempi, si “allenano” con le bambole per passare febbricitanti alla Barbie in un gioco di specchi tra accudimento e rispecchiamento). Barbie e Ken, in guerra per la leadership del regno di Barbilandia, dove si scontrano modelli di patriarcato acerbi e appena scoperti, ma già arcigni, e modelli sclerotizzati di un femminile apparentemente vincente ma immobile e preconfezionato, sono strutture e funzioni del pensiero e della complessità della coscienza umana. Barbie invita Ken ad esistere indipendentemente da lei. Ed è questo, forse, l’elemento veramente ‘rivoluzionario’ e dirimente del film. La condivisione di uno spazio comune, all’interno delle relazioni, tra autorappresentazione e autonomia.
