Grottesco, Horror, Sala

BALLATA DELL’ODIO E DELL’AMORE

Titolo OriginaleBalada Triste De Trompeta
NazioneSpagna/Francia
Anno Produzione2010
Durata107'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

1937. Le scimmie del circo urlano selvaggiamente nella loro gabbia mentre, fuori, gli uomini uccidono e muoiono in un altro circo: la guerra civile spagnola. Il Pagliaccio Triste, arruolato contro il suo volere dalla Milizia, finisce per commettere con un machete un massacro di soldati nazionalisti mentre ha ancora indosso il suo costume. E così inizia questa movimentata avventura in cui Javier e Sergio, due pagliacci orrendamente sfigurati, combattono all’ultimo sangue per l’amore ambiguo di un’acrobata durante il regime di Franco.

RECENSIONI

All’ennesima potenza

Potente o rumoroso? È questo l’interrogativo suscitato dalla maggioranza dei film del regista spagnolo Alex de la Iglesia, il più delle volte debordanti verso un sopra le righe senza ritorno che rischia di perdere per strada le fila del racconto. Un racconto che predilige l’irriverenza, l’accumulo, il bizzarro e la mescolanza di generi. Accade anche in Balada Triste de Trompeta, che frulla a tutta velocità la guerra civile spagnola, e il conseguente franchismo, con una grande e impossibile storia d’amore. I generi spaziano senza soluzione di continuità, e con abbondanza di citazioni, dal war-movie all’horror, insinuando il thriller e ammantando il tutto con toni da tragedia greca. Cinema post-moderno nel vero senso della parola, in quanto non si accontenta di rimasticare il passato, ma dona nuova vita a un immaginario ben sedimentato attraverso uno stile personale, fantasioso e comunicativo.

Le redini della vicenda sono affidate alla figura archetipica del clown. Una maschera da sempre ambivalente, eletta icona horror per il contrasto tra le risate promesse e i brividi evocati. Un’ambiguità amplificata dall’antagonismo tra un pagliaccio triste e uno allegro, due facce del lato nero dello stesso de la Iglesia, in base a quanto dichiarato dal regista di Bilbao nella conferenza stampa di presentazione del film al Festival di Venezia. Le immagini prediligono colori desaturati in forma patinata e cercano il bello a ogni inquadratura, con una grande cura che si traduce in rigore e spettacolarità. Alcune sequenze si imprimono nella memoria, su tutte quella del clown armato di machete che, nel sanguinoso incipit, combatte e uccide tra soldati atterriti e spiazzati, ma anche il grottesco incontro tra il protagonista e il generale Franco (quel morso liberatorio e geniale). Straordinaria l’aderenza fisica degli attori al non facile ruolo, sia Carlos Areces che il rivale Antonio de la Torre.

Purtroppo il finale vanifica in parte le premesse, lasciando che la baracconata, per quanto ben condotta, prenda il sopravvento. Il limite maggiore è quindi nell’assenza di un vero punto di arrivo, con una progressione che rischia di fare dell’eccesso la sua ragione di essere. Potente o rumoroso, quindi? Forse entrambe le cose, con i decibel che diventano cassa di risonanza delle immagini per un insieme divertente, sicuramente personale, piacevolmente folle, anche se un po’ fine a se stesso.

Non è gratuita l’apertura alla Guillermo del Toro, con tanto di inserti originali dell’epoca, sulla guerra civile tra franchisti e repubblicani: quando, in seguito, De la Iglesia si concentra sul racconto circense più vicino a Freaks (per melodramma e orrore) che a Fellini (la componente grottesca ed onirica), è evidente l’allegoria in cui la bella Natalia è la Spagna, Sergio la violenza del franchismo da cui Natalia, in un rapporto d’amore malato, è attratta-respinta, e Javier, più ambiguamente, rappresenta sia le istanze di libertà sia il prodotto degli orrori del regime, portato alla follia (ma per amore). Sui titoli di testa, inoltre, il regista offre molti altri spunti sulle copiose fonti d’ispirazione dell’opera, inserendo immagini da Il Fantasma dell’Opera (1925), Cannibal Holocaust, Frankenstein e Flash Gordon. È un peccato figlio della troppa originalità citazionista, se qualcosa va fuori tono o odora troppo di convenzioni nel registro fumettistico-comico (l’uomo cannone che sbatte contro i muri come Vil Coyote: gag sopra le righe), nella commedia (ma Carlos Areces ha una splendida maschera fantozziana woodyalleniana, anche prima che De la Iglesia gli cucia addosso quella, memorabile, del clown-papa assassino), nel dramma d’amore (triangolo risaputo: la bella, il bel tenebroso, lo sfigato cui sta scomodo il ruolo da mero amico della bella…) e, a seguire, nella tragedia orrifica, con splendida chiusura da gotico Universal, potente e romantica, in cui i due mostri dissanguano il paese/Natalia e, non avendo più forze per combattersi, non fanno che piangere di dolore. Fra vari richiami a pellicole del passato, il sapore più forte resta quello dei dark horror anni ottanta, in primis Christine - la Macchina Infernale (il nerd che si trasforma in assassino spietato) ma anche Darkman, risalendo fino al capolavoro anni settanta Il Fantasma del Palcoscenico. Il titolo originale è preso da una canzone di Raphael, che vediamo al cinema nel film Sin un Adiós del 1970. La versione uscita nelle sale italiane è stata sforbiciata per ragioni di censura.