Commedia, Sala

AVE, CESARE!

TRAMA

Una giornata nella vita di un “fixer”, ovvero di un faccendiere di uno studio cinematografico alle prese con numerosi problemi da risolvere.

RECENSIONI

“Essere pronti a fare ciò che è più giusto. A qualunque costo. Non è questo che fa di un uomo un uomo?”  “Sì, quello e un paio di testicoli. Lo scambio avviene fra il vecchio Lebowski e il Drugo Lebowski, a sintetizzare in battuta salace un’ossessione che informa da sempre il cinema dei fratelli Coen: cosa fa di un uomo un uomo? O meglio, cosa fa di un uomo un mensch? Ovvero, in yiddish, una “persona d’integrità e d’onore”; un serious man insomma. Tema centrale nel capolavoro coeniano del 2009, riemerge con forza nell’ultimo Ave, Cesare! e nel film di cui questo è un gemello diverso, uno specchio deformante, un bizzarro controcanto: Il ponte delle spie, la cui sceneggiatura, stesa in prima bozza dal semiesordiente Matt Charman, è stata corposamente rimaneggiata proprio da Ethan e Joel Coen per la regia di Steven Spielberg (in modo non dissimile, ma più sostanziale e coeso, di quanto già avvenuto con lo script di Unbroken di Angelina Jolie: i Coen stanno costruendosi una peculiare carriera parallela di “correttori di bozze” per Hollywood; o di fixer, se vogliamo, per evocare il ruolo di “aggiustatori” dei protagonisti di entrambi i film). Usciti a soli tre mesi di distanza, i due lavori costruiscono un curioso gioco di assonanze e specularità, quasi che i Coen avessero riversato in entrambi, con registri differenti, le medesime tematiche. Fra cui emerge quella del mensch: la spia sovietica Rudolf Abel e l’avvocato americano James Donovan si riconoscono vicendevolmente come tali, vedono “l’integrità e l’onore” oltre la cortina di ferro che li separa teoricamente. Abel rivede in Donovan lo “stoikiy mugik”, lo standing man, del suo paese d’origine, stabilisce con l’avvocato una connessione raccontandogli l’aneddoto di un uomo percosso dal nemico ma inamovibile, nella versione italiana “l’uomo tutto d’un pezzo”. Donovan è assimilato a quell’uomo e si guadagna il rispetto di Abel, facendo “ciò che è più giusto a qualunque costo”, come diceva Lebowski. Il tuttofare, risolviproblemi (ossia fixer) di mestiere Edward Mannix di Ave, Cesare! non si imbarca in un’impresa rischiosa come quella di Donovan, ma nel suo piccolo tiene gli equilibri del suo microcosmo (i Capitol Studios) come il fixer improvvisato Donovan alle prese con l’equilibrio politico mondiale. Nel confessionale dove si reca con frequenza eccedente, Mannix dice al suo prete che deve scegliere fra l’opzione più comoda, più ovvia (accettare il promettente impiego presso la compagnia aerea che lo corteggia) e quella più difficile, meno sensata (restare agli studios per gestire il caos e le bizze di Hollywood), che pure gli pare, in tutta onestà, “la cosa giusta”. E nel mondo di cerone e cartongesso degli studios, quanto è più difficile capire chi è un uomo? Ave, Cesare! è costellato di individui incompiuti, mezz’uomini mostruosi, soltanto metà di un intero: DeeAnna/Scarlett Johansson è metà donna e metà sirena, costretta nel suo “culo di pesce”, una protesi bestiale; lo strepitoso personaggio di Jonah Hill, Joe Silverman, capro espiatorio per mestiere, si presta a essere padre, reo, ubriaco, ma non è nessuna di queste cose, non è un vero individuo, bensì “una persona per professione”, diventa un uomo solo quando serve per risolvere guai legali; il tragicomico, memorabile cowboy Hobie/Alden Ehenreich è un bovaro strappato alla sua terra e letteralmente ridipinto per essere ciò che il regista o il pubblico vuole (“devono rifarti il look”, gli dicono prima di inguainarlo in uno smoking); Thora e Thessaly Thacker sono due metà gemelle di una stessa odiosa personalità, una duplice Hedda Hopper che Tilda Swinton non tenta nemmeno di diversificare, perché le due non sono abbastanza “persone” per essere distinte. Mannix si muove in questo panorama - sintetizzato nelle sardoniche inquadrature che lo vedono camminare di fianco alle statue incompiute del set del peplum: dei mezzi uomini letterali, solo dalla vita in giù, monumenti posticci alla dis-umanità hollywoodiana – tentando di capire cosa è, se c’è, che fa di lui un uomo, a differenza dei personaggi di cui è incaricato di proteggere l’immagine.

E a stringere in un’opera bifronte Ave, Cesare! e Il ponte delle spie c’è anche lo sfondo della Guerra fredda: è Baird Whitlock/George Clooney in prima persona a tracciare un parallelo, quando, folgorato dalle parole degli sceneggiatori comunisti, spiega a Mannix che gli studios non sono che una miniatura, un plastico in scala ridotta, del sistema capitalistico mondiale. Così il microcosmo di Ave, Cesare!  è una versione giocattolo del mondo di Il ponte delle spie, catturato in un momento storico non identico ma simile (gli anni 50 per il film dei Coen, i 60 per quello di Spielberg). Ancora una volta, Donovan e Mannix si rispecchiano uno nell’altro, quando si ergono a monolitici, ottusi perfino, protettori dell’identità americana minacciata dallo spauracchio comunista: Donovan pronuncia la sua arringa patriottica (“Io sono irlandese, lei è tedesco, ma cosa ci rende entrambi americani? Una cosa sola: il manuale delle regole, lo chiamiamo costituzione e ne accettiamo le regole. E' questo che ci rende americani, solamente questo”) credendo fermamente in un mondo che segua le regole del gioco stabilite e difese dagli Stati Uniti. Quel momento, nello stile nobilmente classico, ormai oltre la Storia, di Spielberg, potrebbe essere tranquillamente prelevato da uno dei finti film della Capitol di Mannix, la fabbrica dove quelle ferme convinzioni vengono prodotte e vendute al pubblico in pacchetti scintillanti. Quando la minaccia sovietica si infiltra negli studios, tramite la posticcia “conversione” di Baird/Saulo, neotesserato del partito comunista, Mannix lo riporta all’ordine a suon di schiaffoni, lo rispedisce sul set a “fare la star”: a mantenere saldo il suo ruolo nello status quo, nell’industria che produce l’immaginario in cui gli americani si identificano. Tornata alla ribalta negli ultimi anni nell’universo cinematografico e televisivo, a causa dei raggelamenti sul fronte geopolitico, la Guerra fredda è nuovamente di moda (si pensi a Operazione UNCLE, allo pseudo Putin di House of Cards e all’invasione di nuovi “russi cattivi” del cinema recente: qui un bell’approfondimento sul tema) e rimetterla in scena significa anche rimettere in scena un passaggio cruciale della narrazione di sé intrapresa dall’America attraverso la sua industria culturale. Così la fiducia nella costituzione dello spielberghiano James Donovan è la stessa che i Capitol Studios e il loro tuttofare Mannix edificano, dieci anni prima, un film alla volta, epurando dall’industria gli sceneggiatori contaminati da idee bolsceviche (e del maccartismo racconta più Ave, Cesare!, nei brevi, fulminanti passaggi sul raduno di autori reietti, che tutta l’ingessata retorica da biopic del coevo L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo), che nel film dei Coen risultano sarcasticamente sconfitti. “Mi piace pensare di aver cambiato qualche testa, con quella scena”, confida ingenuamente una delle penne comuniste a uno sconvolto Baird Whitlock, che nel finale torna pienamente consapevole di quanto un suo primo piano ben angolato valga più di ogni messaggio bolscevico occulto. E il momento clou di Ave, Cesare!, con l’emergere ridicolo e trionfante del sottomarino russo nelle acque antistanti la villa californiana di un divo votato alla causa dell’est, ha una crudele assonanza anche visiva – l’America di spalle che, in semisoggettiva, guarda all’Altro, al blocco sovietico che si profila all’orizzonte - con la corrispondente scena madre di Il ponte delle spie, quella in cui Abel e Donovan fronteggiano, sull’eponimo ponte, le autorità della Germania Est per lo scambio di prigionieri. Anche la fabbrica dei sogni è fatta di contrattazioni e “scambi di ostaggi”: in fondo, anche il film dei Coen si basa su uno scambio di prigionieri, e per un Baird Whitlock che torna all’ovile, c’è un Burt Gurney/Channing Tatum che prende il largo alla volta dell’URSS. Non prima di aver fatto affondare, per amore del suo assillante cagnolino, la valigetta gonfia di banconote “per la causa” e, con essa, l’ipotesi fallimentare di poter sovvertire le regole del gioco.