Fantascienza, Recensione

AVATAR

TRAMA

2154: Jake Sully, un marine costretto sulla sedia a rotelle, è stato reclutato per una missione sul pianeta Pandora, ricco di un minerale preziosissimo che potrebbe risolvere i problemi energetici terrestri. La missione consiste nel “linkarsi” a una Avatar dal DNA ibrido (alieno/umano) così da infiltrarsi tra la popolazione locale (i Na’vi) che ostacola l’estrazione del minerale.

RECENSIONI

Vecchi paradossi e rinnovate sciocchezze

Il grande quanto ormai classico paradosso che sottende il Nuovo Cinema Digitale è la ricerca di Analogico. Il motion capture prima e il performance capture poi sono ottimi esempi: da un lato ci si compiace della possibilità di plasmare sinteticamente personaggi in piena libertà creativa, dall’altro ci si sente in dovere di dotarli comunque di movenze (motion) ed espressività (performance) umane. Cameron ha fatto un ulteriore passo in avanti, confermando il trend contraddittorio: appurato che il classico concetto di profilmico va (è stato) aggiornato all’epoca dell’algoritmico e dell’artificiale, ha sentito la necessità di muoversi in questo nuovo profilmico come se fosse “vero”, con una cinepresa in carne e ossa (la Virtual Camera) che lo portasse materialmente sul set, in cui deambulare sulle sue gambe alla ricerca dell’inquadratura e del movimento di macchina migliore. A guardar bene, tutte le altre innovazione introdotte da Avatar (3D Fusion Camera, Simul Camera, il “montaggio preventivo” di Rivkin), rispondono alle stesse esigenze, perseguono la stessa filosofia: gettarsi nel cinema sintetico del futuro come se fosse il caro, vecchio cinema del passato, ottenere il massimo del realismo col massimo dell’artificio, rendere credibile l’incredibile. E’ storia vecchia, vecchia come il cinema stesso, talmente vecchia che dovrebbe scoraggiare spericolati catastrofismi sugli “effetti speciali che annientano le emozioni” e altri simili – e similmente insopportabili - chiacchiericci/brusii da sala d’attesa (cfr. Roberto Faenza, La Repubblica, 7/1/2010).


More human than human

Avatar, il presunto campione di questo cinema ipermoderno, disumano e de-emozionato, è al contrario un film che riproduce in tutte le sue componenti una inesausta ricerca di umanità, classicità e genuinità (anche emozionale) quasi premoderne. L’ambizione – evidente – è magnificare le risorse tecnologiche perché queste possano infine celarsi alla vista dello spettatore e lasciarlo libero di immedesimarsi e di emozionarsi in modo classico e “ancestrale”. La storia narrata da Cameron è, in tal senso, emblematica quanto archetipica, e racconta/auspica il rifiuto della modernità in favore di un malickiano ritorno alle origini, del re-start in uno Stato di Natura popolato da Buoni Selvaggi e pervaso da panteismo/animismo magico, dove si combatte e si caccia per necessità con armi primitive. Il filtro dell’effettistica, efficace solo se invisibile (dunque: sofisticatissimo), serve proprio a rendere possibile l’immersione spettatoriale nell’universo diegetico, la presenza quasi fisica, tattile su Pandora (il 3D ci sta tutto), e dunque l’adesione emotiva e sensoriale al senso rousseauiano del racconto.


Pandora's Box

Cameron dà consistenza cinematografico/visiva alla contrapposizione tra i due mondi con un’efficace alternanza tra la realtà ipocromatica, monotona e per molti versi meschina della “vera vita” di Jake Sully e quella ipertrofica, satura e immaginifica di Pandora, dove il suo gigantesco alter(?) ego blu cobalto si muove in completa e armonica libertà. Ben presto, anche lo spettatore si bipolarizza e vive la pellicola nell’attesa che Jake abbandoni la sua “vera vita” (nella/con la quale è il film stesso, per certi versi, ad arrancare) per linkarsi al suo avatar e immergersi/ci in un film/mondo decisamente più dinamico (cambiano i parametri audiovisivi, modus filmandi compreso) e accattivante. La Pandora Na’vi è il lussureggiante luogo del virtuosismo cinematico, dove riferimenti noti, disparati e graditi (da Francis Bacon a Panzer Dragon passando per Roger Dean e le sue YesCovers post Fragile) si alternano a un senso di nuovo e di inedito che innesca la curiosità di esplorare.

Rose e Fiori (non tutto)

Col senno di poi, quindi, e accarezzando la sovrainterpretazione, anche l’inizio farraginoso di Avatar potrebbe connotarsi di un perché, benché preterintenzionale: la voce over “comoda” e spesso pleonastica, alcuni dialoghi irritanti (la Weaver e Ribisi che fingono di litigare mentre ci stanno spiegando di cosa parla il film), una caratterizzazione dei personaggi che gronda clichè e una generalizzata assenza di ritmo rischiano sì di indisporre sul nascere ma predispongono lo spettatore ad aspettare (e preferire) che l’universo tridimensionale di Pandora prenda il posto del film così com’era (male) iniziato. Benché non tutto si risolva per il meglio. Ci sono alcuni personaggi che rimangono decisamente poco riusciti (il colonnello Quaritch), altri che non escono dal loro status embrionale (la Rodriguez/Chacon), la brillantezza dei dialoghi latita (eccezion fatta per alcune buone battute affidate alla Weaver) ed è comunque la sceneggiatura vista nel suo insieme a palesare una certa macchinosità irta di forzature, diverse leggerezze e qualche falla. Pur risultando più complessa e stratificata di quello che può sembrare a prima vista…

Testi e sottotesti

Alla trama principale (la difesa di Pandora/Natura dall’ottusità Militare/Umana/Civilizzata), Avatar affianca altre sottotrame (e sottotemi) parallele, più o meno chiare e leggibili. La matrice antimilitarista è piuttosto grossolana e dunque evidente, ma altrettanto palesi sono i riferimenti più specifici alla politica estera americana post 9/11: dalla autodichiarata superiorità socio-culturale degli aggressori (a scopo di lucro) sugli aggrediti, agli espliciti riferimenti agli attacchi preventivi anti-terrore. Ma è la più basilare questione avatar a prestarsi a letture meno univoche. Come va interpretato il riferimento principale, fin dal titolo, alla nostra realtà di internauti? Il film non risulta forse una glorificazione della vita parallela per interposto alter ego digitale a scapito della vita tradizionalmente intesa? In fondo, si è già detto della dicotomia (tecnica, registica, effettistica, emotiva) tra i due mondi di Jake e di come quello “secondario” sia preferibile al “principale”. Fino alle estreme conseguenze, dato che Jake, di fatto, sceglie di suicidarsi e di reincarnarsi definitivamente e irreversibilmente nel suo Avatar. Un’ode apologetica alla dipendenza da Internet? Qualche Meluzzi di turno potrebbe sproloquiarci per un paio di trasmissioni, interloquendo con opinionisti di razza tipo Carmen Russo o Don Mazzi.

De Cameron

James Cameron, dunque, è tornato. E non l’ha fatto certo in sordina. “Il film che cambierà la Storia del Cinema”. Nientemeno. O forse, più m(od)estamente ma neanche troppo, il nuovo Star Wars, pellicola con la quale Avatar presenta in effetti diverse omologie ed affinità a un po’ tutti i livelli. Certo è che per la prima volta in carriera, il re-gista canadese gioca la carta dell’autorialità, si guarda indietro e si autocita in cerca di un percorso artistico in qualche modo riconoscibile. Dalle musiche di Horner che riproducono l’OST del Titanic quasi alla lettera, ai fosforescenti rimandi oltre-mondo di The Abyss, alla riproposizione di singole sequenze (True Lies, scena dell’elicottero con missile-appiglio), Avatar è un po’ una cameroneide. Con un referente privilegiato (si veda la presenza della Weaver), Aliens, che merita un discorso a parte. Un po’ perché è il capolavoro indiscusso e indiscutibile del regista (che forse lo sa), un po’ perché si tratta di un ritorno improntato al rovesciamento e che, quindi, merita due parolette in più. Pianeta ostile, alieni, marines cazzuti, gli ingredienti principali sono gli stessi ma a polarità invertite: il pianeta non è poi così ostile, gli alieni non sono macchine di morte e i marines sono cazzuti sì ma sostanzialmente “cattivi” [tant’è che il film non si (ci) pone il problema etico della loro morte in battaglia. I buoni stanno tutti di là e i soldati americani meritano tutti la fine che fanno. Un po’ forte per un tipo di produzione come Avatar, no?]. E anche le singole sequenze chiave vengono rivoltate come un guanto (scontro finale Ripley in esoscheletro meccanico vs. mostro diventa Mostruoso Marine in esoscheletro meccanico vs. mostro buono). Una specularità quasi scientifica che testimonia, azzardiamo, la volontà di Cameron di abiurare coram populo l’attitudine filomilitarista che serpeggiava nel suo magnum opus e – dunque – di palesare ancora di più il senso politicamente pacifista della sua ultima fatica.

Districare lo sciamanesimo di Avatar non è poi troppo arduo. Tutto sta nell’overdose di esperienza (“immersiva”, dice giustamente la Fox che tra una cosa e un’altra ci ha scommesso mezzo miliardo) che ci propina freneticamente. Ma che pone, però, qualche problema allo spettatore critico. C’è infatti un ribaltamento, che assomiglia tanto al link di Jake Sully col suo doppio blu e flessuoso: centinaia di individui occhialuti sono catapultati in una finzione iperrealistica e tridimensionale, mentre la loro dimensione originaria s’appiattisce come in uno schizzo pre-rinascimentale. La fantasmagoria è spettacolosa – e, diciamolo, ci sono cose che noi umani non avevamo mai visto prima. Ma è una vicenda extra-corporea, proprio come quella del buon Marine, e nessuno sa più nulla del proprio vicino di sala (e poco di se stesso).
Il dilemma, detto in volgare, riguarda l’autosufficienza estetica della trance turbo-tecnologica, perché questo è Avatar: costosissimo cinema della possessione, lussureggiante invasione audiovisiva e cinetico-emotiva, horror vacui. La risposta al dilemma mi è ignota, ma restano alcuni fatti. Il primo, assodato, ha a che fare con l’arte del cinema intesa anche come esperienza sociale e rituale, “ancora capace di produrre il grande WOW” (Manohla Dargis): e di WOW, qui, ce n’è (chi lo nega è senza cuore). Il secondo (anch’esso noto, ma più robusto di quel che sembra) è il soggetto originale, ma in verità ultralogoro: il conquistatore bianco s’adatta ai costumi indigeni (e comprende il nemico e ama la Madre Terra e si congiunge carnalmente con la Principessa etc. etc.). Il motivo tradizionale, però, più che banale deja vu è narrazione archetipica, elementare, ancestrale ed emotiva: perfettamente intonata con lo spirito del film. Questi primi due fatti, combinati, scatenano Cinema: può essere un cinema che non c’interessa ma è cinema dall’alba dei tempi (cinematografici) ed è Cinema che riempie i cuori e gli occhi e le menti.
Il terzo fatto, ahi, è l’arroganza drammaturgica: dialoghi stupidi, espedienti idioti per spiegare tutto per benino, enfasi preconfezionata: si ha fretta di arrivare al dunque (che è la magia computerizzata) e di restarci piantati. Il quarto, ahinoi, riguarda la dittatura del prodotto: la mania tecnologica diventa smania (la paura è che nel relax si possa scoprire la povertà di scrittura); detta tempi e modi delle emozioni; candeggia l’immaginazione; sciocca e terrorizza. Qui sta il busillis: l’idea è alquanto radicale e allo spettatore non è lasciata altra scelta che adeguarsi: nessun distinguo e nessuna sfumatura possono arricchire il tecno-programma in serbo per voi – anzi, un solo vago pensiero di trasversalità (o di minima riappropriazione di sé, diciamo) costa carissimo (rotta la trance, c’è una pericolosissima noia). Il quinto fatto è, insomma, una risma di paradossi: può un sofisticato congegno in 3D bidimensionalizzare l’esperienza filmica? può un film antimilitarista (che però intrattiene con spettacoli militari) bombardare lo spettatore (o, se volete, può un film pro-indigeni scatenare un’invasione)? Il sesto fatto sono i morti americani, per i quali (come sottolinea sopra il sempre ottimo Pelleschi) non ci si pone alcun problema etico: i più sensibili potrebbero trovarci un altro intrigante paradosso (può un costosissimo prodotto di una grossa corporation destinato a conquistare il mercato internazionale permettersi un piglio politico così scabroso contro la corporatization della politica? e se lo fa, non attua, dimostrandola viziosamente, quella stessa corporatization?).
Il settimo fatto è la sigaretta di Sigourney Weaver, che è la più acuminata trasgressione del film; e, assieme ad animismo e pacifismo, dà un minimo angolo hippie alla visione (che per il resto si prende un po’ troppo sul serio). Il bilancio critico è composito: pro, contro e un paio di problemi filosofici. Sopito il WOW, Avatar non è né esaltante né deprimente: una conclusione noiosamente cauta ma che qualcuno doveva pur sobbarcarsi. Kìyevame ulte Eywa ngahu.

Avvicinarsi all'esegesi di un'opera come Avatar non è un compito semplice per il critico. Si tratta di una situazione che può generare una condizione di spaesamento, in alcuni casi di imbarazzo per un film così ambizioso, così denso, caotico, entropico e così volutamente, manifestamente grande. I rischi sono molteplici, dal completo e totale annullamento di sguardo conseguente al suddetto spaesamento, fino alla critica precostituita, soluzione spesso prediletta - molto facile e quasi sempre superficiale - quando la materia sembra sovrastare alcuni degli orizzonti assiologici del recensore, obbligandolo ad un nuovo sguardo.
Come da copione - sempre rispettato al cospetto di film bigger than life (ricordiamo le accuse di incomprensibilità ad INLAND EMPIRE) - uno stuolo di critiche al film di Cameron si è alzato subito dopo l'anteprima riservata ai giornalisti. La tempistica con cui alcune affermazioni sono pervenute e soprattutto le argomentazioni che le sostenevano non fanno altro che dimostrare il potere che questo film ha su chi lo giudica, indipendentemente dal segno dei singoli giudizi. Più nello specifico si è parlato di film banale, di plot trito e ritrito, di sceneggiatura prevedibile e schematica o di eccessiva linearità. Analizzando queste critiche, e il fil rouge che le fa dialogare, si capisce che quelle caratteristiche, prosciugate dal pregiudizio malevolo che ne orienta il segno, sono la vera cifra del film. La schematicità della trama è figlia di una lavoro di collage, fusione e condensazione di tutta una serie di archetipi narrativi e cinematografici sui quali il film lavora e con i quali dialoga; la linearità e la semplicità appartengono al registro scelto da Cameron: profondamente classico, unico in grado di conferire equilibrio all'opera, collante indispensabile per una struttura – cinematografica, produttiva, formale, visiva – che rischierebbe di straripare da ogni sua sponda.
Anche da questo punto di vista Avatar è Hollywood. Un enorme sforzo economico per il quale la sinergia di tutti quelli che collaborano, economicamente e artisticamente, è quanto mai necessaria e conferma in maniera esemplare la definizione di film come opera irrimediabilmente collettiva, gestita, controllata ed equilibrata dal suo deus ex machina. Un lavoro che fin da subito, dimostrandosi in perfetta continuità con la tradizione hollywoodiana, esprime in modo esplicito la volontà di non selezionare il pubblico prima che questi si auto-selezioni da sé, scegliendo una strada ambiziosa che pochi si possono permettere, alla quale pochi possono ambire: l'ultima creazione di James Cameron è classica anche perché decide di parlare a tutti (e i risultati al botteghino le danno ragione), e il grande, enorme sforzo artistico-economico va anche in questa direzione. Un film con delle premesse simili non può essere analizzato con i codici canonici con i quali si penetrano gli altri film, si farebbe sicuramente un buco nell'acqua, come dimostrano le critiche testé convocate. È fuor di dubbio che alcune sequenze, alcuni frammenti dialogici siano pregni di una retorica a tratti respingente. Così come è evidente l'atteggiamento spesso didascalico della sceneggiatura che in molti casi (con alcune felici, sorprendenti eccezioni) tende a spiegare tutto nei minimi particolari. Sarebbe facilissimo criticare in questo modo Avatar, semplice ancorché errato. È evidente che questo è il dazio che un colosso da trecento milioni di dollari deve necessariamente pagare, caratteristiche che tra l'altro non cerca nemmeno di celare, ma che espone (e così si espone) nel modo più sincero e cristallino possibile, con l'obiettivo prioritario di raggiungere ogni tipologia di spettatore. Proprio nel confronto con questa caratteristica viene fuori il coraggio di un film del genere: non sono poche le forzature che Cameron apporta alla natura standardizzata e incancrenita del blockbuster, che in modo più o meno esplicito trapelano sempre più inesorabilmente. L'entrata in scena di Grace Augustine rende bene il concetto: la scienziata è interpretata dall'unica attrice davvero famosa del film, Sigourney Weaver, icona indelebile nell'immaginario cinematografico grazie alla saga di Alien,che nella sua prima inquadratura chiede a viva voce le sigarette e dopo un attimo di imbarazzo da parte dell'equipaggio afferma “vi sembra scorretta questa immagine”. É fin troppo evidente in Cameron l'intenzione di mascherare diegeticamente una battuta che è soprattutto metatestuale e che, in quanto tale, è un azzardo non da poco e una frecciata ai paladini del politically correct.
In quest'ottica non sono poche le letture sottotestuali del film e, sempre con le modalità comunicative codificate del film hollywoodiano risalta su tutte il discorso sul doppio, sull'avatar e sulla realtà virtuale: attraverso un bildungsroman spiccatamente classico Cameron mostra, con tutte le necessarie tappe d'avvicinamento, il rapporto tra il soggetto e il suo doppio informatico, mettendo in scena, con un coraggio e degli argomenti che per certi versi sorpassano quelli di Matrix, il passaggio (in questo caso definitivo) dalla realtà alla realtà fittizia, in cui l'auto-rappresentazione virtuale del sé viene preferita alla vita reale.

Avatar incarna per tanti motivi lo spirito dell'industria hollywoodiana e del suo modo di fare cinema ed è in particolare nel rapporto con i generi che il film di Cameron e la tradizione classica toccano il punto di maggiore continuità: Avatar rappresenta la messa in pratica esemplare del cocktail film che Rick Altman ha ampiamente analizzato nel suo celeberrimo volume Film/Genre. Non si tratta di un film di genere, ma di un film di generi, un frullato di cinema colmo fino all'apice, pronto in ogni momento ad esplodere se non fosse per quella classicità narrativa e strutturale che tiene tutto sempre in equilibrio. Il referente principale e archetipico è Casablanca di Michael Curtiz: in quel caso ci trovavamo di fronte ad un film che metteva insieme film storico, lavoro di propaganda, noir, love story, e tanto altro ancora. Allo stesso modo Avatar coniuga la fantascienza, l'avventura, il film sentimentale, il racconto di formazione, il war movie, il western e tante altre contaminazioni di generi minori.
Nonostante si tratti del film più costoso di sempre e insieme dell'opera che ha incassato di più al botteghino, Avatar è profondamente autoriale. Con quest'opera Cameron sembra dire: mi conoscevate come giovane talento uscito dalla factory di Roger Corman, poi come regista di piccoli (economicamente) film di fantascienza, che in seguito sono diventati grandi e infine come, “re del mondo”, burattinaio supremo del film che fino all'altro ieri ha avuto più successo nella storia del cinema, Titanic? Oggi vi dimostro che non è stato un caso e che non mi sono compromesso, ma sono rimasto un autore molto caratterizzato e lo sarò sempre. Avatar infatti rappresenta molte facce del pensiero cinematografico di James Cameron, oltre che la summa definitiva di una filmografia trentennale. Si pensi ad esempio al discorso iniziato con Terminator: una macchina perfetta frutto della tecnologia del futuro che in Terminator 2 – Il giorno del giudizio viene adombrata, sconfitta per perfezione da un'altra macchina, il T1000, più fluida, più naturale, materica. Da questo punto di vista gli avatar-Na'vi non sono altro che la naturale prosecuzione di quel discorso: il massimo dello sforzo tecnologico per un risultato che raggiunge una perfezione estremamente naturale e primitiva. Il rapporto che il popolo indigeno ha con la natura e con la propria terra ha grossi punti di contatto con gli alieni umidi e soprannaturali di Abyss. La storia d'amore apparentemente impossibile è la riproposizione di quella, altrettanto incredibile, tra Jack e Rose in Titanic. Ma il film con il quale Avatar è più in comunicazione è Aliens – Scontro finale, proseguendo il discorso sulle armi e il militarismo, sviluppando nodi ideologici da molti all'epoca fraintesi. Opera con cui condivide l'attrice Sigourney Weaver e soprattutto quello scontro finale che dopo aver reso famoso il film del 1986, rimarrà, con Avatar, indelebile nella memoria cinematografica.