TRAMA
Astolfo, un pensionato che dalla vita non si aspettava più niente, viene sfrattato dal suo appartamento di Roma e ripara nella vecchia casa di famiglia, un rudere in un paesino del centro Italia che era stato, un tempo, un palazzo nobiliare. Si adegua alla vita in provincia, si arrangia, vivacchia, si azzuffa con il sindaco, ritrova un vecchio amico, prende in casa un paio di scapestrati come lui. Poi incontra Stefania, una donna della sua età, e si innamora.
RECENSIONI
Se l’età è solo uno stato mentale, e ne sono convinta (Clint Eastwood docet), Gianni Di Gregorio è senza dubbio tra gli autori più giovani che il nostro cinema possa vantare; un cinema bistrattato, talvolta con qualche ragione, accolto con perplessità o fastidio, eppure capace di regalare opere – piccole e allo stesso tempo grandi – come Astolfo, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma.
Intanto non si può non notare l’eco onomastico con uno dei brani più noti dell’Orlando furioso, quell’Astolfo costretto ad andare fin sulla luna a recuperare il senno smarrito del pazzo per amore, ovvero l’Orlando del titolo. Il richiamo alla luna è del resto ben presente, sia nelle immagini – Astolfo, più di una volta, sembra cercare ispirazione o risposte a quesiti esistenziali nel cielo notturno – sia nell’esplicito richiamo poetico astrale, che il personaggio, un ex professore, recita a un certo punto: «Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea/ Tornare ancor per uso a contemplarvi/ Sul paterno giardino scintillanti,/ E ragionar con voi dalle finestre/ Di questo albergo ove abitai fanciullo,/ E delle gioie mie vidi la fine.»
Ed è ben presente Leopardi, in un modo che può sembrare persino paradossale, in questa storia impossibile, che se chiudiamo gli occhi è simile a un incubo – il ritorno forzato alla casa natale e la fine di ogni gioia, appunto – e se li apriamo sembra una rinascita. Con reminiscenze del miglior Kusturica e di certe favole dall’effetto apotropaico – chiamiamole pure miracoli – di Aki Kaurismäki, Astolfo riesce a fondere, mantenendo un equilibrio non facile, la commedia onirica e la tragedia quotidiana dell’indifferenza, quasi neorealista, ahinoi. La prospettiva dalla quale si guarda il mondo cambia tutto e il racconto, in questo senso, è il demiurgo magico di un antireale compassionevole, finalmente umano. È così che se da una parte il protagonista viene sbattuto fuori, con fin troppi sterili convenevoli, dalla casa romana dove ci si immagina abbia vissuto per lungo tempo, dall’altra la sua nuova casa – una villa antica di famiglia, ormai praticamente un rudere – diviene il crocevia di disperati con la generosità dei cavalieri. Chiunque arrivi, per aggiustare la cucina a gas o per consegnare la spesa in cambio di qualche spicciolo, si ferma ad abitare questo non luogo dove ogni nefandezza da miserabili sembra riuscire a trasformarsi in possibilità, dove ogni ingiustizia o sopruso – e ve ne sono di davvero odiosi, da parte del parroco e del sindaco, lo status quo de-umanizzato – diventa un modo per accrescere il proprio portato di solidarietà; un microcosmo in cui è l’essere hic et nunc ciò che conta e non l’identità burocratica o ciò che si possiede. Non poteva mancare l’amore, in questa storia di Astolfo che è anche la storia di un Orlando contaminato con Don Chisciotte. In un paese che sta dalle parti di Roma, ma di fatto non sta da nessuna parte (o magari sta ovunque), Astolfo sconfigge l’idea che sia il solo senno, materialisticamente rappresentato dalla ricchezza, dall’abilità di accantonare, a fare di qualcuno un uomo degno di essere amato. Dopo aver convinto Angelica-Stefania delle sue buone intenzioni, i due partono insieme sulla macchina sgangherata del professore, incrociando, in modo simbolico e forse anche fisico, l’auto stracarica di biciclette del figlio della donna, che si opponeva alla conoscenza tra la madre, vedova benestante, e l’attempato nullatenente, o quasi. Nessun infingimento necessario, niente decappottabile in prestito, nessuna meta conosciuta per l’hidalgo delle cause perse e la sua pulzella: solo l’inestimabile valore di un pezzo di strada da percorrere insieme.
Come anche Lontano, Lontano, una sorta di epitome filmica, per così dire, del principio del Sabato del villaggio (e questo film, del poeta marchigiano, conserva soprattutto il malinconico realismo, che è tutt’altra cosa rispetto al decantato pessimismo), Astolfo ci sussurra, sorridendo, un minuscolo segreto che sarebbe bene saper custodire: la potenza del sogno non sta nella sua realizzazione, ma nella capacità di non arrendersi di fronte alla bruta realtà e ai suoi attacchi; insomma, nella capacità di continuare a sognare, nonostante tutto. E che il senno resti pure sulla luna.