TRAMA
Mentre è in vacanza sul Nilo, il geniale detective di fama mondiale Hercule Poirot si ritrova a dover indagare sull’omicidio di una giovane ereditiera.
RECENSIONI
Lo dicevo per Assassinio sull’Orient Express: quello che interessa a Branagh di Agatha Christie non è il whodonit, l’enigma da sciogliere, il giocare a cluedo, ma Hercule Poirot. In quel film la soluzione del giallo era nota a tutti e per questo il suo svelamento veniva liquidato come una formalità, ché il vero culmine arrivava dopo: un monologo di intensità shakespeariana (il filo shakespeariano lo intesserà Ilaria Mainardi che mi segue), recitato di fronte agli indiziati fattisi pubblico. In quel momento platealmente performativo l’investigatore (e Branagh, attore che lo incarna) mostra il suo tormentato oscillare tra la legge (che gli impone la consegna degli assassini alla giustizia) e l’etica (che gli suggerisce di chiudere un occhio, forse due): un dilemma (amletico) che porterà l’uomo (e dico uomo mica a caso) ad abdicare eccezionalmente al suo ruolo.
In Assassinio sul Nilo se il congegno giallo resiste di più (l’identità dell’assassino è ignota alla maggior parte del pubbico), si fa comunque di tutto per disinnescarlo: la soluzione dell’enigma suona infatti talmente laboriosa, la ricostruzione dei fatti così ampollosa, da dissipare qualsiasi tensione (si faccia il confronto con la lineare e limpida esposizione degli eventi - di quello che rimane uno dei più brillanti e ingegnosi meccanismi della scrittrice - nel celeberrimo adattamento del 1978, per la regia di John Guillermin). Perché, ancora una volta, a Branagh dell’omicidio non interessa la dinamica (che anzi ingarbuglia), ma il movente. E gli interessa, come in Orient Express, per come si connette al personaggio Hercule Poirot. Se la soluzione è in un legame amoroso (poiché è l’amore alla base del progettato omicidio, una passione talmente folle e impetuosa da lasciare dietro sé un’imprevista scia di morte), è il Poirot uomo d’amore a essere il centro e la chiave del film. Ce lo dice l’incipit (come quello di Orient Express, inesistente nel romanzo) sul giovane Hercule (de-aging per Branagh, sempre pronto ad assorbire tecniche e mettere in fuga sospetti d’accademia): durante il primo conflitto mondiale il Nostro salva, con l’intuito del genio che è, i suoi commilitoni. Resta però sfigurato a causa di un’esplosione che falcia il suo capitano. Senso di colpa e, ovviamente, relazione compromessa, quella con una donna che gli consiglia di coprire lo sfregio con gli improbabili baffoni che gli conosciamo. Da allora, ci sta dicendo Branagh, la ferita d’amore di Hercule (come quella fisica col pelo) è stata coperta da una corazza psicologica che lo preserva dall’umano sentimento. Sì, siamo di nuovo nel supereroico (in Orient Express Branagh, in barba all’iconografia tradizionale, faceva del personaggio un uomo d’azione) e, in modo inequivocabile, alla origin story del protagonista come freddo uomo d’intelletto, Man (Detection) Machine.
E ce lo dice la fine che, come in Orient Express, non culmina nella soluzione del giallo, ma in una coda che riguarda l’Uomo Hercule che prima fa un’avance a Salome Otterbourne, la cantante oggetto del suo desiderio, e poi va a vederla esibirsi in un locale. Lo fa senza baffi, mostrando le cicatrici sulla pelle: Hercule è senza protezione, con i sentimenti a nudo, pronto a mettersi amorosamente in gioco.
Ma a dirci che il centro del discorso è Poirot, e non l’omicidio, è anche l’arrivare al cuore della trama delittuosa dopo quella che sembra una premessa lunghissima e che, invece, ancora una volta, si rivela la sostanza del discorso branaghiano: il leggere Poirot, prima che come detective, come demiurgo supereroico della narrazione, non un testimone casuale dei fatti, ma il vero generatore delle storie che lo concernono. Persino, aggiungerei, il suo decodificatore (così Kenneth/Hercule aggiunge senso al romanzo di Christie, decrittando, senza troppe filosofie, la relazione lesbica tra Mrs Van Schuyler e Miss Bowers). Gli omicidi sembra chiamarseli, il belga, e pare saperne tutto, Poirot/Branagh. Ma davvero tutto. «Come fa a saperlo?» gli si chiede, «Ho occhi per vedere» risponde il Nostro: sì, ma nel senso che laddove si posa lo sguardo di Poirot (/la macchina da presa di Branagh), lì spunta il fiore giallo (non il contrario). E questo spiega perché, a differenza di quanto avviene nel romanzo, Poirot incontri i suoi personaggi prima dell’imbarco nel battello, nelle premesse del piano delittuoso che verrà poi attuato nella crociera. Perché di questa storia delittuosa va indagata la vena sentimentale di Poirot. Così la scena di ballo iniziale, nel tabarin, è una rappresentazione analitica della danza interiore del personaggio, quella dei suoi fantasmi erotici. Rappresentazione nel vero senso della parola, perché c’è sempre tantissimo ragionamento dietro le messe in scena branaghiane e tantissimo artificio in tutte le sue costruzioni narrative: questo spiega anche perché il regista per le riprese vada davvero in Egitto, ma per filmarlo come se fosse finto. E perché Branagh faccia ricostruire un pezzo di Belfast in studio, per l’omonimo film che segue cronologicamente a questo, facendone uno spazio scenico - con le luci di sorveglianza che lo tagliano come a teatro - delegando ancora una volta alla palese finzione il compito di narrare un’altra origin story. La sua.
I regni d’argilla; la terra del prologo, con gli stivali dei soldati che affondano, e la sabbia che avviluppa lo sguardo, in un Egitto che sembra una quinta per ripararsi, uno spicchio di mondo esotico, forse un macabro lunapark. Il letamaio che nutre la bestia, l’es pulsionale, bramoso, e l’uomo, che delle pulsioni e delle bramosie è fatto in massima parte, come d’acqua. E in fondo al fiume, nelle segrete dell’acqua, appunto, dove i pesci grandi sbranano quelli piccoli, feroci, naturali, al riparo da occhi indiscreti, sembrano celarsi i misteri di Assassinio sul Nilo, seconda incursione del regista di Belfast nel mondo narrativo della celebre giallista britannica. «Questa è la nobiltà della vita» (all’insegna di un estremo naturalismo, quasi machiavelliano, senza incespichi sulla morale o su un malinteso senso dell’eroico), diceva Antonio. Atto I, scena I: praticamente una dichiarazione d’intenti.
E mi sembra che Branagh, da par suo, dichiari l’intento di voler intingere il romanzo di Agatha Christie nel dramma dell’amore e del potere, con la stessa libertà che guidava il Bardo nell’atto di rileggere Plutarco.
Non mancano gli omicidi e c’è l’indagine, condotta come sappiamo da Poirot, ma qui, più ancora che in Assassinio sull’Orient Express (2017), che pure vantava un epilogo quasi chapliniano, per disincanto e amarezza, ogni significante sposta il significato sull’analisi della finitezza terrena, di quello sciocco dimenarsi dell’essere umano, ben conscio e inconsapevole allo stesso tempo che presto si spegnerà per tutti la «breve candela» dell’esistenza. Alla fine, non ci saranno né vinti né vincitori: un sarcofago di tessuto bianco renderà irriconoscibili le salme, inutili, quasi risibili, le loro ricchezze.
Allora mi pare davvero che il Nilo di Kenneth Branagh, autore che sconta un antico destino di miscomprensione (quanto era sottile la sua versione di Sleuth (2007)? Quanto fu sottostimato?) , sia molto di più di un giallo e qualcosa d’altro; potrei dire, un’elaborazione del lutto – dei lutti – in forma di inchiesta investigativa. E al suo personaggio, astuto e sornione, ma ancor di più malinconico, afflitto da sensi di colpa che tuttavia non ne frenano l’egoismo, il regista non fa sconti. Poirot uccide ciò che ama, ancora e ancora. Perché è disposto a qualunque cosa pur di dimostrare di avere ragione, pur di concludere le indagini da condottiero valoroso, quale è divenuto nell’immaginario chi lo acclama, quasi una sorta di maledizione da aretè. Dei fantasmi, che infatti si sentono, in una delle prima scene, ma sono pressoché celati alla vista, come i countrymen (o chi per essi) in Antonio e Cleopatra, gli stessi – fondamentali interlocutori di quel potere - che il luogotenente di Cesare arringava al funerale di quest’ultimo.
Da un’astrazione quasi supereroistica, Branagh riplasma via via, come è giusto, il suo detective – che è suo, in senso lato, quanto lo è di Agatha Christie – secondo i dettami dell’umanesimo che gli è caro. Il superman baffuto può così salvare Cleopatra/Linette dal morso letale dell’aspide (o del cobra egiziano: così narra la leggenda che è tale proprio nei suoi contorni misteriosi), lasciando che il destino si compia come giallo vuole. Ma è una beffa il motto che vuole l’uomo artefice solo del proprio divenire – faber fortunae suae –, dato che è proprio la fortuna, in accezione meramente economica, a decretare la fine tragica della giovane ereditiera.
Il potere si corrompe – impregna il legno come l’odore dei prosciutti nella stiva, sapientemente giustapposti ai cadaveri – e corrompe; ed Hercule Poirot ha visto la barbarie della guerra coi propri occhi, la porta nei segni sulla propria faccia. Su quella stessa faccia, smessa la maschera autentica dell’investigatore, l’uomo può scovare la propria finitezza e fallibilità, la propria responsabilità finalmente disvelata. Un’altra maschera – certo, lo sono sempre – ma costituita dalla creta della pietà e dell’amore («il tuo amore e la pietà annullano quel marchio che pubblico biasimo m’impresse sulla fronte (W. Shakespeare, sonetto 112)»… dove pubblico, in questo caso, può essere sostituito con privato, intimo).
Poirot non è stato capace di salvare il proprio capitano e nessun altro, a dire il vero. Perché in fondo non avrebbe potuto: non è davvero un supereroe o un dio pagano. Come essere umano, finalmente ricomposto, forse pacificato, può però tentare di salvare se stesso.