TRAMA
1951. Africo è un paesino arrampicato sulle montagne dell’Aspromonte i cui abitanti vivono ancora “cumm’e bestie”, senza elettricità, acqua corrente, un medico condotto o una scuola. Il sindaco della marina, cioè il paese al mare, fa loro promesse di ammodernamento che regolarmente non mantiene, e gli africoti decidono di aiutarsi da soli costruendo una strada che colleghi il paese montano alla marina. Nel frattempo è giunta ad Africo una maestra di Como che non ha intenzione di andarsene come chi l’ha preceduta perché ha scelto di rendersi utile dove c’è più bisogno.
RECENSIONI
Il borgo di Africo Vecchio, sulle pendici dell’Aspromonte, non esiste più, spazzato via da una violenta alluvione e ancor prima dall’assenza rovinosa delle istituzioni, disinteressate a un angolo di mondo arcaico che nessuno ha avuto interesse a legare alle magnifiche sorti e progressive della giovanissima Repubblica Italiana. Oggi rimangono solo ruderi di una comunità rurale sconfitta dalla Storia, macerie di un Sud stretto nella morsa fatale di ignoranza e omertà, politica e criminalità. Mimmo Calopresti celebra le sue radici nella consapevolezza amara di un riscatto sociale impossibile se non imboccando l’unica strada concessa, quella dell’emigrazione, e firma un apologo sconsolato in forma di favola triste, coadiuvato da un volenteroso cast quasi interamente calabrese e da un produttore dalle medesime origini, Fulvio Lucisano, che nel cameo finale incarna letteralmente il figlio che ce l’ha fatta e che torna a rendere omaggio alla terra perduta. Ma come sempre le buone intenzioni non bastano. La messinscena ha un respiro pesantemente televisivo, dipinge una miseria oleografica, smarrisce piste narrative (la moglie di Peppe “rapita” da Don Totò), asseconda una scrittura declamatoria e semplicistica (l’artificiosità stucchevole di tutte le sequenze ambientate nella scuola improvvisata) e una recitazione caricata (su tutti la maestrina comasca interpretata da una Valeria Bruni Tedeschi col pilota automatico, cattiva coscienza del Settentrione arrivata lì con la speranza di incontrare “gente più infelice di me… per stare meglio”, infine conquistata dalla causa meridionalista). Africo è ritratto come un presepe cencioso ma dai cenci ben ordinati, un diorama appena spolverato di un museo etnografico, i suoi abitanti delle figurine che non riescono mai ad elevarsi al di sopra della mera funzione. A sottolineare una dimensione fiabesca decisamente poco a fuoco, l’insistente colonna sonora di Piovani. “Poeta, ma è vero che siamo così poveri?” chiede una donna del posto al bislacco genius loci impersonato da Marcello Fonte, dopo essersi vista in foto nel reportage d’inchiesta di una rivista. La finzione di Calopresti, pur generosa d’animo, in stallo tra requisitoria ed elegia, di questa povertà non riesce a rendere né la misura né lo scandalo.