
TRAMA
L’ex terrorista Giorgio Pellegrini ha deciso di abbandonare la propria militanza rivoluzionaria, in cui non ha mai veramente creduto: per rifarsi una vita, vende i suoi vecchi compagni in cambio di un forte sconto di pena. Uscito di galera, insegue una paradossale ascesa verso la rispettabilità, protetto e incoraggiato dall’ipocrisia di un Nord-Est fin troppo compiacente. Ma sempre sotto la minaccia del corrotto Anedda, vicequestore della Digos, che lo tiene in pugno con le prove della sua antica colpevolezza. Finché arriva il giorno del regolamento dei conti._x000D_
RECENSIONI
Ho molto amato il libro di Carlotto. Ne ho apprezzato la sicurezza del disegno, ammirato la solidità dei caratteri, assaporato la secchezza del dettato narrativo. Quella di Carlotto è una scrittura tremendamente incalzante, di un’asciuttezza non compiaciuta, di un’essenzialità priva di complicazioni gratuite e al tempo stesso scevra dal gusto delle ellissi vertiginose e della stringatezza artificiosa. Uno stile laconico ma non lacunoso, in una parola. E soprattutto è uno stile funzionale alla definizione di un universo morale letteralmente agghiacciante: sullo sfondo di questa scrittura nerissima verso il lettore avanza una sfilata di personaggi consumati dal cinismo, posseduti dall’avidità, divorati dall’opportunismo. Su tutti giganteggia il protagonista, Giorgio Pellegrini. Un individuo totalmente, pacificamente privo di scrupoli, di un’amoralità assoluta, in qualche modo perfetta, imperturbabile. Sobrietà e incisività: ecco dunque i pregi maggiori della scrittura di Massimo Carlotto. Di questi pregi Michele Soavi e i suoi quattro cosceneggiatori non sanno che farsene, se ne sbarazzano risolutamente, puntando invece sul registro opposto, quello dell’accumulo e della contorsione narrativa. Risultato: un film scombiccherato, farraginoso e costantemente a rischio di comico involontario. La lineare e inesorabile progressione drammatica del romanzo si attorciglia in un intreccio appesantito da assillanti flashback e sforacchiato da ellissi sbrigative. La compattezza strutturale del libro si sgretola in una successione precipite di sequenze brutalmente giustapposte (troppi i passaggi tirati via, troppi gli snodi appena abbozzati) e di episodi non sempre necessitati a dovere (si veda l’assurda facilità con cui i due ex-ustascia si fanno fregare). La narrazione in prima persona si converte meccanicamente in didascalica voce over e quei personaggi che sulla pagina possedevano una credibilità e una pregnanza esemplari sullo schermo diventano maschere grottesche, figurine caricaturali, macchiette. Anedda, l’elegante Anedda (“Non solo aveva buon gusto, i vestiti li sapeva indossare con naturalezza. Come un vero signore”) si vede affibbiati volto e fisico di Michele Placido (sic!) e la raggelata amoralità di Giorgio Pellegrini è involgarita – surriscaldata e normalizzata - in nevrosi compulsiva dall’interpretazione isterica di Alessio Boni (che quando strilla rivela insospettabili e irresistibili doti comiche). Unica eccezione di un casting altrimenti sciagurato è Isabella Ferrari, semplicemente perfetta nel ruolo dell’affascinante e riottosa Flora. Ma dove Soavi pecca maggiormente è nell’adozione di un registro visivo sguaiato, enfatico, roboante: barocchismi luministici, grandangoli a profusione, abuso di soggettive marcate, ralenti esasperati e esasperanti, movimenti di macchina totalmente immotivati, rozzi squarci visionari, legnose interferenze tra elementi appartenenti a livelli cronologici distinti e chi più ne ha più ne metta. Un autentico profluvio di stilismi visivi che aggiunge disordine al disordine, trasformando irrimediabilmente il disturbante ritratto morale del Nord Est tracciato da Massimo Carlotto con sorvegliata icasticità in una tonitruante baracconata grandguignolesca. Così il turbamento lascia spazio al raccapriccio, la riflessione gelida allo shock epidermico, lo stile alla stilizzazione. E il colpo alla nuca smarrisce tutta la sua solennità: non più giustizia, soltanto una squallida esecuzione.

Troppe mani hanno maneggiato e rimaneggiato la fonte principale del film, il referente, il testo carlottiano, si vede, si intuisce, si sente ad ogni passo dell’incedere pellicolare. Soavi tenta di raccogliere le messi del senso filmico riassemblando il glutine narrativo per trasformarlo in flagranza della messa in scena, rifigurandolo attraverso quadri visivi che tendono ad abbandonare lo stile prosciugato, quasi riarso al sole crudele dell’universo letterario perfidamente indifferente di Carlotto, per farne debordanza espressiva che collochi l’opera cinematografica in una zona assolutamente altra da quella della scrittura. Soavi sa perfettamente che il cinema è la differenza ed è per questo che è nel cinema che deve immergersi a corpo morto, come la carcassa dell’alligatore all’inizio del film, in quella prim(ev)a folgorazione in piano sequenza della soggettiva impossibile, che è il cinema stesso. Un cinema che ritorna malsanamente a destabilizzare e sabotare con immagini eccedenti (soggettive invadenti, ipertrofia grandangolare, inquadrature debordanti, funambolismi vari e il terrificante, ripetuto refrain della canzone di Caterina Caselli utilizzato nella più felicemente antifrastica delle maniere, anche come ecolalia di una catastrofe, non soltanto interiore) quella che altrimenti sarebbe stata la purezza della pellicola di genere, e che comunque in fin dei conti rimane pur sempre tale, nella sua accampata e sacrosanta pretesa di cinema, per l’appunto, di genere. C’è in sostanza una volontà di cinema che fortunatamente (al fine cioè di arrischiare qualcosa sul piano degli esiti estetici) resiste a questo sostrato di nudità e sobrietà appartenente al film di genere (così come, d’altro canto, esiste una volontà cinematograficamente cosciente che ama sovvertire le regole dell’appiattimento stilistico delle produzioni televisive: Il testimone, Uno bianca) e che intende intervenire finanche violentemente sulla forma filmica declinata sulla monotipia del genere, creando zone formalmente meno sicure, meno riconoscibili, generando scarti semantici difficilmente colmabili e che esulano da schemi pre-confezionati ab inizio, in fase di sceneggiatura, nonostante le più ardite articolazioni, o da stereotipi cinematografici, irreggimentati sulle medesime griglie formali, dai tempi di certo noir o poliziesco italiano anni ’70. Cinema che riesce a vivere, perforando i modelli, insinuandosi in queste intercapedini di linguaggio, mettendo in opera un delirio della forma non gratuito e non senza imperfezioni evidenti nella sbrigativa repentinità dei tempi, nelle smagliature dei raccordi, che intercetta volutamente tutto il senso di uno spiazzamento sintattico. Esiste dunque in Soavi un’esigenza anche metatestuale di scavalcare il pur abile gioco della semplice connotazione metaforica, perché sappiamo benissimo che l’universo della rappresentazione è quello a larga scala di un’italietta che sta misurando la sua meschinità socio-antropologica tra illusioni economiche in ascesa da nuovo boom e bigottismo culturale della nuova vecchia borghesia (in un non meglio definito e definibile Nord Est con funzione metonimica), sulle ceneri rifluite di un periodo breve ma intenso di turbolenza sociale, e che quindi quello che si sta mostrando è un marciume che deve esemplarmente (s)piegare la dimensione storica, e sociale di nuovo, e rappresentativa, deformando con giustificata insistenza anche luoghi, oggetti e persone, la cui corruzione morale (null’altro che anima o coscienza in disfacimento) è la risultante tragica, dostoevskijana, di questo tipo di scenario umano. Un abisso oscuro, al di là dell’essenza criminale e di un’istintualità compressa, che si apre come una voragine inseguendo illusioni a lampi di normalità (un senso di normalità distorto dal paradigma del successo facile) un tempo rinnegata, ciò che non può non produrre orrifici rantoli di realtà (come il doloroso e lancinato finale da film horror, tanto per ripiombare ludicamente nei generi) lanciati nel vuoto di una situazione esistenziale determinata lukacsianamente da un essere sociale in totale putrefazione. Si torna nuovamente a una carcassa, a un corpo morto da cui prendere beffardamente le distanze, per reinventare nuove vite, nuove forme e dunque nuovo cinema, dall’alto della m.d.p. salutandolo sulle note di un requiem: arrivederci amore, ciao.
