TRAMA
1980. Paul, figlio di una coppia borghese del Queens, si mette nei guai a scuola, fa amicizia con un ragazzo di diversa estrazione sociale, si scontra coi genitori quando questi lo mandano in un’esclusiva scuola privata, scopre le gioie e i dolori del diventare grande.
RECENSIONI
Qualcosa funziona. Funzionano certe scene collettive, ben concertate, per le quali Gray dimostra un polso, un occhio e un cuore che non era automatico riconoscergli. Funzionano certi personaggi, soprattutto. I genitori del protagonista, specialmente la madre (Anne Hathaway, notevole), apprezzabile variazione del sempiterno cliché della madre di famiglia ebrea-americana tutta d’un pezzo. Il padre non è da meno, ma il suo spessore viene fuori più tardi.
I problemi cominciano col protagonista, Paul Graff, neo-allievo di una scuola media pubblica che, verso la fine degli anni Settanta, passa a un esclusivo istituto privato sulla scia delle militaresche ambizioni di ascesa sociale di una famiglia approdata alla middle class con le unghie e con i denti. Non che sia mal servito da Michael Banks Repeta, tutt’altro. Il problema è, piuttosto, che Paul viene messo al centro di conflitti morali, sociali etc. in cui egli funge soltanto da cartina di tornasole. Tutto, infatti, finisce sistematicamente con l’essere risolto da chi gli sta intorno: Paul, completamente passivo dall’inizio alla fine al netto di qualche foglia di fico di sceneggiatura che va in direzione contraria, si limita ad essere un pretesto per l’identificazione dello spettatore, grazie a cui a quest’ultimo viene somministrata quell’excusatio non petita alla quale Gray è decisissimo a ridurre il suo film. Excusatio che suona pressappoco così: la Storia insegna che in Europa gli ebrei hanno patito una subordinazione “strutturale” che non li rende poi così diversi dagli afroamericani in terra nordamericana; purtroppissimo, però, gli ebrei d’America sono stati costretti dalle circostanze (e solo da loro) a compromettersi con il sistema, ad abbandonare l’identificazione con le minoranze oppresse e dunque ogni speranza di contribuire alla loro emancipazione (ciò che, come suggerisce il nonno di Paul interpretato da un meramente diligente Anthony Hopkins, rappresenterebbe la vera vocazione identitaria degli ebrei d’America).
L’Armageddon Time del titolo è infatti l’epoca di uscita dai “trenta gloriosi”, nella quale la disgregazione sociale già da tempo potenzialmente in essere subisce una brusca accelerazione. Il film cerca una complessità morale nell’imputare agli ebrei americani di avere assecondato questa china senza avversarla; il problema, ed è un problema grosso, è che se, a livello macro, l’eclissi di ogni dimensione pubblica dietro al privato è rappresentata nel film dall’avvento di Reagan, a livello micro essa viene rispecchiata dal passaggio da una scuola all’altra per colpa, sostanzialmente, dell’amico di colore di Paul, e solo sua. Né Paul né la sua famiglia hanno alcuna responsabilità: che ci possono fare se è lui a farsi le canne e a passarle a Paul prima di essere scoperti, non prima di avere dato prove abbondanti di avere il ritmo del sangue (sic)? L’unica, pallida responsabilità dell’ambiente di Paul è clamorosamente autoassolutoria: la madre capisce tutto quello che c’è da capire e si muove certamente nella direzione giusta (quella di difendere il pubblico dal privato, per quanto possibile), ma la sua azione non è sufficiente perché frenata dai pregi stessi della donna: la paziente, saggia, consumata resilienza (ebbene sì: purtroppo questo film merita anche questa insopportabile parola) che la rende totalmente sovrana tra le mura domestiche ma di efficacia limitata fuori. Come si può, seriamente, criticarla?Gray capisce bene che questi sono tempi in cui ripensare il fallimento della vocazione statunitense al melting pot è pressoché obbligatorio. Ma sono anche tempi a cui gli stereotipi, a torto o a ragione, fanno venire immediatamente l’orticaria. E Gray ha bisogno degli stereotipi (magari anche solo per contestarli) come un pesce ha bisogno dell’acqua. Ne risultano contraddizioni che in mano a un regista autenticamente classico (come lo stesso Gray ha talvolta dimostrato di poter essere) sarebbero ricche di potenziale, ma che in Armageddon Time vengono trascurate, rimosse, sepolte dalla ricerca eccessivamente insistita dell’identificazione tra spettatore e protagonista.