TRAMA
Un vecchio carcere ottocentesco, situato in una zona impervia e imprecisata del territorio italiano, è in dismissione. Per problemi burocratici i trasferimenti si bloccano e una dozzina di detenuti rimane, con pochi agenti, in attesa di nuove destinazioni. In un’atmosfera sospesa, le regole di separazione si allentano e tra gli uomini rimasti si intravedono nuove forme di relazioni.
RECENSIONI
Dopo l’edificio abbandonato di L’intervallo e il centro polifunzionale di L’intrusa, è di nuovo uno spazio circoscritto quello in cui Di Costanzo fa muovere i personaggi della sua storia: un penitenziario visto come un pianeta consegnato al suo destino, un guscio che ci si lascia alle spalle, una costruzione prossima al vuoto che, letto in metafora, fa allungare l’ombra del surreale sull’intreccio, ingigantita dall’attesa beckettiana di un evento che non sappiamo quando si verificherà (il trasferimento degli ultimi detenuti in un altro istituto).
Anche il modo in cui il regista ci concede uno sguardo all’esterno aumenta l’impressione di un “carcere-relitto”: il fuori lo vediamo solo all’inizio, è un mondo avvolto nel buio della notte, una dimensione oscura, una zona di caccia, uno spazio primitivo, inospitale, privo di coordinate. Tutto quello che è invece vita quotidiana e familiare non ci viene mostrato, è semplice racconto del personale di servizio, evocazione pura, la traccia orale e invisibile di una realtà lontanissima, potenzialmente perduta, come la si narrerebbe in un romanzo apocalittico.
La forza del film risiede nel simbolismo dichiarato dal definito perimetro d’azione, nell’evidenza dei termini della costruzione drammaturgica, nell’efficacia con la quale queste caratteristiche vengono rese. Così, quando i dodici detenuti superstiti, in attesa del trasferimento, vengono concentrati in una sola area, è palese che si stia riducendo la scena a spazio teatrale precisamente delimitato, in cui ciascuna cella è un comparto stagno, la bolla nella quale vive e si sviluppa un personaggio. Relativamente alla scrittura è persino possibile individuare una scansione del dramma in atti, con quei veri e propri intervalli in cui si inquadra il carcere come una fortezza (Bastiani? Buzzati fa capolino: il discorso delle regole che man mano cominciano a perdere senso e forza, alla luce dell’isolamento, mi ha evocato Il deserto dei tartari).
Stante questo dispositivo, l’attesa è l’ingrediente drammaturgico che alimenta la tensione, con un’escalation degli eventi sapientemente graduata: prima l’annuncio dello stallo, poi lo sciopero della fame, poi il buio, poi la mancata spedizione del cibo. Lo schema è sempre in vista, le situazioni in evoluzione calcolata. E aggravata dalla necessità (narrativamente strategica) di dover prendere sempre decisioni istantanee, senza possibilità di consultarsi, senza supporti o appigli esterni. Insomma l’isolamento è dato ribadito, sottolineato, inverosimile nella sua categoricità e in questo senso studiatamente paradossale e manifestamente “utile”. Assumiamo Lagioia (Silvio Orlando) come miccia di un’esplosione emotiva, anche se razionalmente sappiamo che costui non ha alcun interesse a scatenare una rivolta poiché (siamo stati avvertiti) è a fine pena; nonostante ciò continuiamo a guardarlo con sospetto in spregio di una valutazione realistica dei fatti: questo perché il teorema narrativo-drammatico sta lavorando a dovere e ci impone di concludere che l’azione violenta sia prossima. Il gioco di pressione che Lagioia innesca è volto ad alimentare una simile aspettativa: figura ambigua e furbissima, su di essa poggiano tutti gli interrogativi del film e la sua evoluzione (il ripiano della cucina che contiene i coltelli, chiuso con un lucchetto, si apre sempre come una possibilità di sviluppo, è una minaccia costante - se fai vedere i coltelli, prima o poi li userai -). Abbiamo compreso quanto astuto sia questo personaggio nel primo colloquio con gli agenti, quando, convocato, dopo aver dichiarato la sua disponibilità a cucinare personalmente, chiede di andare in bagno: lo fa perché ha compreso che solo assentandosi darebbe modo alle guardie di decidere sulla sua richiesta, perché nessuna di loro sosterrebbe le ragioni di cedervi in sua presenza. Questa è una conclusione alla quale il pubblico arriva anche solo inconsciamente, perché percepisce che quella temporanea uscita di scena non è casuale e risponde a uno scopo preciso. Allo stesso modo suona ambiguo l’interesse dell’uomo alla sorte di Fantaccini, il detenuto giovane e fragile: è espressione di una vicinanza paterna o piuttosto un tentativo manipolatorio? Perché Di Costanzo calcola ogni minimo sommovimento della storia in una doppia chiave: come definizione dei rapporti tra i personaggi e come potenziale sviluppo caotico della narrazione. Per esempio, quando fa emergere la dimensione umana di Gargiuolo (Toni Servillo), non definisce solo un tratto fondamentale del carattere del personaggio, ma adombra anche il dubbio che quella speciale sensibilità - già letta dai suoi colleghi come una debolezza - potrebbe determinare o contribuire a provocare, nella situazione eccezionale che si sta vivendo, una catastrofe.
Per arrivare a questo il regista si pone apertamente in dialogo con il pubblico, giocando a carte scoperte con le sue aspettative e con i luoghi comuni di certa narrazione, fidando su automatismi e reazioni probabili, come se si cimentasse in un horror di secondo grado. In questo senso se la scrittura è finissima proprio per come gestisce i sottintesi, non è meno calibrata la direzione degli attori per come permette a quei motivi di leggersi (o non leggersi) nelle espressioni dei volti degli interpreti, la cui prossemica è sempre più importante delle cose che dicono. Ma tutto il complesso scenico (e la portentosa fotografia di Bigazzi) gioca sempre anche in questa chiave.
E, a film finito (attenzione spoiler), il fatto che la situazione non degeneri, e che, anzi, riveli l’umanità (e la razionalità) dei detenuti (e di Lagioia che tutti li rappresenta) probabilmente è ancora un modo per interpellare lo spettatore, inchiodarlo alle sue responsabilità: quel sospettare, quell’attendere la violenza diventa una colpa con la quale fare i conti perché dice qualcosa di noi, delle nostre predominanti sovrastrutture. Del nostro pregiudizio. Di ciò che siamo (diventati).