Drammatico, Recensione, Spionaggio

ARGO

TRAMA

La “storia vera” del cosiddetto Canadian Caper, ossia l’operazione segreta congiunta tra Stati Uniti e Canada per risolvere la crisi degli ostaggi americani in Iran, conclusasi il 28 gennaio 1980.

RECENSIONI

Una volta si sarebbe scritto “film furbo”. Peccato aver abusato tante volte di definizioni come questa rendendole inutilizzabili: prima o poi certe sentenze epigrafiche possono tornare davvero utili. Quello di Affleck, diciamo allora, è un film che accarezza molte ipotesi e finisce per non sposare nessuna tesi. Si parte con una certa docu-serietà autocritica ma si conclude, più o meno, a tarallucci, vino e manicheismo hollywoodiano. Si raffredda la materia trattata con messinscena asciutta e sobrietà filmica per poi sbracare in sequenze/inseguimenti action emmerichiani. In generale, si cattura – e si illude – un certo tipo di pubblico per poi agganciarne un altro (o due).
Se, infatti, il prologo sembra un j’accuse verso il governo americano, reo di appoggiare personaggi inappoggiabili come lo scià Mohammad Reza Pahlavi, presto i rivoluzionari iraniani diventano mediorientali (cattivi) da fumetto e gli americani, sostanzialmente, (i) “buoni”. E il passaggio fluido ed efficace da cinéma vérité a fiction viene tra(sgre)dito da una progressione sempre più canonica, con (eccessivi) alleggerimenti comici (tutto il “baraccone Argo”, organizzativo e promozionale) e decise virate verso una suspense sovraesposta e inopinatamente “di Genere” (l’inseguimento all’aeroporto).

Argo assume insomma le sembianze di un film metamorfico e multiforme, nel quale convivono più anime poco amalgamabili; dapprima sposa l’alibi fondante della Storia Vera con stile adeguato ma poi si rimangia parzialmente la serietà in nome della spettacolarizzazione. E già che c’è ne approfitta per fare un po’ di metacinema cinefilo e gigione, con magnificazione tout court del potere salvifico della settima arte nonostante tutto. Ma è già un po’ il piccolo destino del Ben Affleck autore, partire con buone premesse per poi perdersi in corso d’opera (Gone Baby Gone) o mescolare le carte dei codici per rendere i prodotti più gradevoli e/o smerciabili (il noir con happy ending The Town). Che poi, il tutto, fa anche molto “ultime produzione Clooney”.
Rimane, comunque, da riconoscere ad Affleck la perizia con cui manipola i generi, l’efficacia con cui ricrea le atmosfere giuste [le Pa(ra?)kula-te anni ’70, i rimandi a certo Pollack] affidandosi ai collaboratori giusti (il bravo Prieto alla fotografia) e la capacità di confezionare un film che, al netto di tutto, riesce a sublimare la propria ondivaga incoerenza di fondo e a farla franca a più livelli. Ossia, anche, il film furbo che rischia di passare per bello – a/ergo – perfetto per “la notte degli Oscar”.

Come L'Uomo che Fissa le Capre (e con lo stesso leit motiv iconico di Guerre Stellari), arriva al cinema un’altra, eccentrica operazione “Cia top secret” declassificata nel 1997, in cui davvero la realtà supera la finzione. Ben Affleck alza il tiro delle proprie regie (e vince l’Oscar) esplorando il periglioso terreno del “racconto vero e/ma assurdo”, da rendere su grande schermo preservando la tragedia del momento storico, la tensione del thriller spionistico e la spensieratezza della boutade. Tutto sommato (anche come interprete), gli riesce abbastanza bene, soprattutto nella parte iniziale, quando mescola abilmente immagini di repertorio dell’assalto all’ambasciata e ricostruzione (buon lavoro del direttore della fotografia Rodrigo Prieto, che ritrova il look anni settanta), è puntiglioso nella resa (vedere, sui titoli di coda, l’impressionante somiglianza fra attori truccati e personaggi originali; ben resa Teheran ad Istanbul), inquadra la contingenza dello stato persiano (Iran) sfruttando anche fumetti Persepolisiani (che, in realtà, richiamano i disegni preparatori del finto film, in originale opera di Jack Kirby), non è ideologicamente manicheo (le colpe degli U.S.A. sono ammesse e le ragioni dei rivoluzionari comprese) e, dopo una partenza realistica - politica da cinema anni settanta, con coralità d’azione e profusione di informazioni in tensione alla Tutti gli Uomini del Presidente, a sorpresa, compare e funziona anche la brusca virata nella commedia, con l’entrata in campo dei personaggi di John Goodman e Alan Arkin (il primo nei panni del truccatore John Chambers, quello de Il Pianeta delle Scimmie), forniti di battute su Hollywood da manuale. A deludere, purtroppo, è la messinscena della “missione” vera e propria a seguire, dove non si mantiene lo stesso mix di registri (che resta una parentesi gratuita, come l’inserto sentimentale su Affleck/Mendez lontano dal figlio), lo stesso racconto di (non) fantasia in cui serio e faceto, metacinema e thriller vanno a braccetto. Il paradosso della sceneggiatura dell’esordiente Chris Terrio: nel rendere la finzione di una storia vera improntata alla finzione, appare finto ed artificioso nel momento in cui rinuncia agli artifizi palesi e mette in scena, in modo troppo costruito per rispettare la pretesa di realismo, continui paralleli fra fuggitivi e potenziali pericoli in atto per fermarli, senza tensione (non si crede mai per un attimo che non ce la faranno) e con finale che, come ha ammesso Affleck stesso, è un incrocio fra Missing e L'Ultimo Re di Scozia.