TRAMA
Los Angeles, oggi. Henry, stand-up comedian di successo, e Ann, soprano di fama internazionale, formano una coppia realizzata e affascinante, costantemente sotto i riflettori. La nascita della loro prima figlia, Annette, una misteriosa bambina con un destino eccezionale, cambierà le loro vite.
RECENSIONI
SILENCIO
Annette il suo essere un’opera filmica lo rivendica, lo mette subito sul piatto (riguardarsi anche l’inizio autodichiarativo di Holy Motors): già sullo scorrere dei loghi iniziali (prima ancora dei titoli) una voce si rivolge allo spettatore chiedendo l’assoluto silenzio: «Se volete cantare, ridere, applaudire, piangere, sbadigliare, fischiare o scorreggiare, per favore, fatelo nella vostra testa».
Di più: la voce invita a trattenere il respiro fino alla fine. [1]
L’incipit, muovendosi su una sottile ambiguità (lo show di cui parla è lo spettacolo del protagonista - uno stand-up comedian - o il film che stiamo per vedere? Direi che è il primo per il secondo), si lega alla scena iniziale in cui vediamo il regista Leos Carax in una sala di registrazione, dietro la console, dare di fatto inizio alle danze («Possiamo cominciare?» si canta): ci sono gli Sparks al di là del vetro, in un’esibizione che diventa presto itinerante e che va a raccogliere gli interpreti principali del film. Perché quelli che vediamo apparire sono Marion Cotillard, Adam Driver e Simon Helberg, non si tratta ancora dei personaggi della storia, ma degli attori chiamati a interpretarli che si muovono in gruppo verso la finzione. Che viene sancita dalla consegna a Cotillard di un soprabito e a Driver di un giubbotto e una parrucca (la lunga chioma che sfoggerà in parte del film). Driver cavalca una moto e Cotillard si infila in un suv: nel momento in cui si allontanano comincia la messa in scena. Quel «Bye, Henry», «Bye Ann» degli astanti sono rivolti agli attori spariti nei personaggi. Intanto Carax e gli Sparks si sono posti davanti alla camera e hanno sancito il loro ruolo demiurgico («The authors are here and they're a little vain»).
Poco prima - lo abbiamo visto - Carax ha chiamato vicino a sé Nastya, sua figlia. Momento topico: è un rito intimo quello che si va a celebrare, questa complessa produzione («The budget is large but still, it's not enough») con attori importanti, questo caraxiano e perciò estenuante progetto che non sembrava mai vedere la luce (con nomi in partecipazione che sono fioriti e appassiti, compresa Rihanna), questo musical attesissimo che segna il ritorno di un autore cult, questo film, insomma, Annette, è innanzi tutto una dichiarazione per immagini rivolta a una sola persona. A noi, il cosiddetto pubblico, viene semplicemente concesso di assistere: possiamo farlo a patto di restare in silenzio, di non far rumore, ché persino il nostro respiro disturberebbe lo svolgimento della favola-epistola che occuperà lo schermo. Una dichiarazione per immagini racchiusa - come in una busta da lettere - in una parentesi: perché nei titoli di coda il discorso della messa a nudo della rappresentazione (mittente, destinatario, indirizzo, finalità) viene ripreso, con Carax e figlia, assieme alla troupe del film, a vagare in un bosco, a chiudere il sipario, ad augurarsi (augurarci) buona notte, buon ritorno nella realtà.
[1] Preveggente la recensione di Alessandro Baratti del film precedente: «Di fronte a un film come Holy Motors la sola reazione ragionevole sarebbe il silenzio»
UN SOGNO TUTTO MIO
Il sipario delle nostre palpebre si alza pigramente
Ma dov'è il palco, vi chiedete?
È fuori o dentro?
Fuori?
Dentro?
Questo dell'intimità rivendicata, del gesto artistico che pare rivolgersi a una sola persona, mi pare l’aspetto più importante di Annette: in un tempo in cui il cinema è sempre più mercificato, magma di immagini indistinguibili - tarate su un target e relativo spettatore intercambiabile -, dove rinvenire uno stile sta diventando un’impresa, Carax usa Amazon (la piattaforma, la piatta forma) per scrivere una lettera filmica a sua figlia. Certo, anche Sorrentino, con È stata la mano di Dio ha piegato il capitale netflixiano all’esigenza personale di raccontarsi, ma lo ha fatto con un’autobiografia chiara, aneddotica. Ugualmente sincera, nessun dubbio, ma leggibile da tutti, a misura di pubblico (e di Oscar). Qui no, qui c’è un pezzo di sé trasformato in un musical che, come in un sogno trasfigura il discorso in simbolo e di cui la platea è destinataria accidentale, pretestuosa, funzionale alla messa in atto del progetto produttivo (senza pubblico non ci sarebbe Annette). Qui c’è un padre che usa un film - che crea un mondo - per parlare a sua figlia («We've fashioned a world, a world built just for you»). Un film che sembra avere una forma onirica, in cui gli show di Henry - un comico che dice cose serissime - non sono mai divertenti (neanche nel senso dell’anti-commedia: Henry non fa ridere, e neanche questo fa ridere), show in cui gli stessi spettatori sembrano recitare una parte a memoria. Come in un sogno (buñueliano). E, come in un sogno, il soggetto firmato dagli Sparks si deforma nella visione di Carax che lo fa dialogare con la sua storia personale, che mescola Sé con Loro, infiltrando verità nel tessuto finzionale: l'attrice Yekaterina Golubeva, sua compagna e madre di sua figlia, che si è suicidata nel 2011; un padre e una figlia che restano soli a elaborare un lutto; il precedente compagno di lei (il regista Sharunas Bartas) denunciato per aggressione sessuale (Ann dormiente: le sei donne molestate); Adam Driver che nella parte finale assume definitivamente le fattezze di Carax, implicitamente abdicando al suo ruolo di personaggio e assumendo - come Lavant in Holy Motors - quello di un puro, nudo (e onirico) strumento espressivo. Perché come in un sogno ciò che è finzione (Henry) diventa specchio dell'anima del dormiente, mentre la storia che si narra è incubo che segue una logica che appartiene profondamente a chi lo sta facendo. È così che un copione scritto dagli Sparks diventa visione incrostata di stralci di vita del metteur en scene. Il plot primario dei due musicisti (nato per un'opera teatrale) si è riconvertito in qualcosa di molto personale, espresso con il linguaggio difforme dell’inconscio. Il solito atto narcisista del regista nel quale se Henry diventa Carax, la sua creatura Annette finisce con l’essere il film (e Annette un film sul film che tratta del rapporto tra opera e autore - come Holy Motors -).
Narcisismo sano: autoriflessione + storia del cinema (le innumeri citazioni - le definisco così per comodità, ché sono pezzi di inconscio anch’esse -), il solito impetuoso racconto che viene narrato (a Nastya, alla propria figlia) usando i mezzi di Amazon. E permettendo al mondo intero di ficcarci il naso, di guardarci dentro. A condizione di non disturbare.
Quindi dov'è il palco? È fuori o dentro?
È fuori. È dentro.
MUSICAL
Tutto questo ci viene detto nei primi cinque minuti del film. Non solo l’incipit più bello della stagione (del decennio? Portiamoci avanti), ma una premessa che, dietro l'entusiasmante resa, mette in campo il senso dell’intera operazione, la denuda. L’artificialità dichiarata, dicevo all’inizio, e dichiarata nell’esperimento del genere più artificiale che ci sia: eccolo qui, redivivo, il musical (ambientato, guarda un po’, a La La Land), un genere che consente di fare sperimentazione in un campo conformista come quello del cinema commerciale, che sfugge alla narrazione canonica e dà priorità all’immaginazione del cineasta, attribuendo alla figurazione e al movimento un valore unico. È strano - e questo dice più della stagione che abbiamo vissuto che di me -, ma i miei tre film preferiti dell’annata 2021-2022 sono tre musical. Uno è il remake (meglio: il nuovo adattamento dello spettacolo) di West Side Story firmato da Spielberg, l’altro è l’ignorato Cyrano di Joe Wright. Con Annette di Carax, si arriva a tre. Tre flop (di diversa portata, ovviamente, ma sostanzialmente degli insuccessi), tre fiaschi prevedibili, ché il musical, nella sua semplicità narrativa, vanta una forma tra le più avanguardistiche che il cinema conosca.
E quanto l’immagine sia connessa alla musica lo dice l’inizio, in cui lo schermo prende vita non appena i jack degli strumenti musicali cominciano a entrare negli amplificatori. Del resto che Carax sia uno che il connubio tra immagine e musica lo interpreti da sempre al meglio ce lo dicono alcune delle sequenze culto della sua carriera (Denis Lavant che corre sulle note di Bowie - scena citata da Baumbach in Frances Ha - è ancora il miglior videoclip possibile di Modern Love).
DECOSTRUCTING HENRY
In Annette, la storia, come in ogni musical che si rispetti, è chiara ed elementare: due personaggi famosi, due carriere pubbliche, uguale fama, personalità e pubblici opposti (Henry sugli spettatori: «Li uccido», Ann: «Li salvo»): la Bella (soprano) e la Bestia (The Ape of God, il titolo del suo spettacolo), la loro storia d’amore. Tutto è esposto chiaramente, continuamente dichiarato: we love each other so much. Siamo belli, famosi e ci amiamo tanto. Fino a quando il successo arride all’una e all’altro no e sullo yacht di quella vacanza che dovrebbe celebrarne la riconciliazione, la tempesta (e l’ennesima sbornia di Henry, un’anima nera che ha sempre esorcizzato la sua oscurità sul palco, fino a quando il palco non lo ha deluso) portano alla morte Ann. Segue la scoperta del talento miracoloso della figlia Annette (una voce come quella della madre) che è il frutto di un incantamento, la vendetta sottile che la gorgone Ann sta preparando contro il marito che l’ha lasciata morire. Lo sfruttamento commerciale della piccola, la complicità del direttore d’orchestra - l’ex (deluso) di Ann -, Henry che lo uccide quando gli sorge il sospetto possa essere il padre della bambina, la denuncia pubblica della piccola («Papà uccide le persone»), il carcere, l’incontro con la figlia. Che non è più una marionetta manovrata dai genitori, ma una ragazzina in carne e ossa che non perdona il padre assassino e la madre che con la sua maledizione l’ha resa uno strumento di vendetta. Non più We love each other so much, ma, sulla stessa aria (che nel frattempo tutto il film è passato), Annette che sentenzia: Now you have nothing to love. Crack. Ora non ha più niente da amare, Henry a pezzi. Addio, i pupazzi a terra, l’Annette che fu (bambola), il padre che fu (scimmia). Tutto superato, tutto finito.
NOI AMIAMO NOI STESSI COSÌ TANTO
Riassumendo: Annette è una struggente favola, tempestata di enigmi (come Holy Motors) che Leos Carax narra alla figlia Nastya in forma di musical e in cui insuffla qualcosa di sé: un senso di colpa forse, un tormento che lo attanaglia (come Holy Motors). E in cui, narrativamente, tutto è dichiarato, in cui i personaggi non vanno decodificati, sono esattamente ciò che appaiono. E infatti si presentano puntualmente. «I’m an accompanist», dice il musicista innamorato di Ann alla prima apparizione, «I am now the conductor of the city finest orchestra» afferma in seguito, in quel pianosequenza circolare che è uno dei picchi del film in cui (ancora) ci si rivolge a chi ascolta il racconto e ci si scusa di interromperlo (c’è un’esecuzione orchestrale da portare avanti). Tra parentesi: Simon Helberg in un mondo giusto avrebbe vinto ogni premio solo per quei tre minuti in cui monologa, dirige, racconta, impreca e piange senza mai perdere il sincrono con l’orchestra e la macchina da presa. «Siamo la polizia» affermano i poliziotti appena si apre la scena nel commissariato. Mentre Show-Biz News (SBN), il rotocalco televisivo, scandisce le tappe della relazione dei protagonisti fungendo da evidente didascalia.
Anche Annette appare per quel che è, una pupa(zza) eterodiretta in mano a genitori narcisisti (anche questo è dichiarato: «Noi ci amiamo così tanto», ché la frase va letta anche nel senso di “amiamo noi stessi così tanto”; al We love each other so much si aggiunge un Counterintuitive, baby: più chiaro di così…). E la voglia sul volto del protagonista è chiaramente quell’abisso maligno di cui parla e che, man mano che la vicenda va avanti, diventa sempre più netto e visibile, quel fondo oscuro e bestiale (scimmiesco) che emerge dalle profondità del suo animo. Una voglia che mi ricorda tantissimo quella del protagonista di Mathias & Maxime di Dolan, altro autore che non ha mai avuto timore di essere esplicito (lì, come scrivevo, la voglia sembra sancire la differente condizione sociale del personaggio, funge da simbolico, visibile marchio delle origini). E si potrebbe continuare pensando all’utilizzo codificato dei colori (dichiarato, fin dalla locandina): il verde associato al personaggio di Adam Driver, il giallo per quello di Ann, con tutta la pletora di interpretazioni che l’uso di quelle e altre tinte (il rosso pure) suggerisce a seconda del contesto.
Un film, e questo è il punto, in cui, al di là delle logiche che lo governano e dei riferimenti che si stratificano - Biancaneve al contrario (uccisa dal principe, dove la mela è avvelenata dalla fama), la storia d’amore come show mediatico, il #metoo, il rapporto tra arte e commercio, la società dello spettacolo eccetera, -, è il cinema a vincere, ché allo spettatore (l'intruso) questo spetta cogliere, tutto lo splendore visivo che c’è dentro questa favola musicale. Carax, da parte sua, fa quello che fa sempre: mette il cuore nelle immagini, dà carne e sangue ai suoi personaggi (anche ad Annette in quel finale pazzesco). Non ci si lamenti della mancata aderenza al canone (un musical che contraddice il protocollo tipico del genere: si canta mentre si scopa - Henry interrompe un cunnilingus - o mentre si è sul water - Ann -), con dialoghi radi, secchi e privi di sfumature, perché il regista pensa solo a sé, non ha certo paura delle reazioni del pubblico (ovvero del ridicolo, del kitsch, del fraintendimento, del disarmonico). Del resto se Annette è un racconto squilibrato è perché, come in un sogno, non conta la logica degli avvenimenti, le sfumature, la psicologia, ma le brutali sensazioni che ti lascia addosso: turbamento, estasi, orgasmo. Inopportuno discettare di quadrature di teoremi narrativi, no?
Che il pubblico lo ami o odi c'est le même, l'importante è averlo girato (a Nastya).