Drammatico, Recensione

ANNA DEI MIRACOLI

Titolo OriginaleThe Miracle Worker
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1962
Durata107'
Tratto dada una pièce di William Gibson

TRAMA

Una tenace istitutrice accetta il difficile compito di educare una giovane ragazza sordomuta e cieca, sfidando i pregiudizi e le ostilità della famiglia.

RECENSIONI

Arthur Penn, classe 1922, è sicuramente uno dei più importanti registi della "new Hollywood". Ha realizzato capolavori quali "Gangster story" (1966), "Piccolo grande uomo" (1970) e "Gli amici di Georgia" (1981), introducendo stilemi e sperimentazioni formali proprie della "nouvelle vague" francese all'interno del codificato sistema dei generi americano. Oggi appartiene alla non ristretta cerchia dei "desaparecidos": da più di dieci anni non realizza film (lavora solo saltuariamente per la televisione). "The miracle worker", del 1962, è in assoluto uno dei suoi più lucidi e sofferti drammi da camera. L'adozione di questo termine teatrale non è fuori luogo. La sceneggiatura, infatti, si basa su una pièce di William Gibson che lo stesso regista, con il medesimo cast, aveva portato sulle scene pochi anni prima. Nella trasposizione cinematografica, Penn, non si preoccupa di dilatare i tempi e di allargare gli spazi, pratica persegiuta per convenzione dalla maggior parte degli sceneggiatori specializzati in adattamenti teatrali (fondata sull'idea malsana del voler "dar aria al testo", genialmente ridicolizzata da Hitchcock), ma mantiene una rigorosa scansione drammaturgica e privilegia la gestualità degli attori, seguendo il ritmo delle pulsazioni del cuore, senza nulla concedere, però, ai ricatti del soggetto. Raramente l'handicap fisico è stato descritto e rappresentato in maniera così delicata, concreta e ad un tempo "teorica". Il regista trasforma un limite "dei sensi" in puro, metafisico ed inquietante disagio esistenziale. L'isolamento assoluto della giovane protagonista Helen assurge a paradigma di una condizione che non è soltanto sua, ma dell'umanità tout court stretta tra un'alterità reale (quella dei "diversi") ed una pseudo-normalità prigioniera della stupidità e dei pregiudizi (simboleggiata, nel film, dalla famiglia della ragazza). L'uomo, che appartenga all'una o all'altra categoria, sarà sempre o incompreso o incomprensibile, o incapace di parlare o incapace di ascoltare e di vedere. Ogni possibilità di dialogo risulta, quantomeno, ardua. Ma accanto a questa (dis)umanità, Penn inserisce un personaggio, quello dell'istitutrice, che, mosso da uno slancio tenace ed utopistico, laicamente "divino", cerca di superare le barriere, di scavalcare le pastoie della convenzionalità piccolo-borghese per avvicinarsi  ad un mondo "altro", quello del silenzio, della sofferenza inesplosa, del grido soffocato.
L'intraprendente istitutrice, donna combattiva, tarda seguace di teorie pedagogiche settecentesche, riuscirà a stabilire un contatto con la ragazza, scoprendo però che di quel mondo sconosciuto ella aveva fatto sempre parte (anche lei è slegata "visivamente" dalla realtà perché affetta da una malattia agli occhi). Per lei, lo stabilire un contatto con la giovane rappresenta quasi un tentativo ultimo e definitivo di riacquisire una coscienza di se e della propria alterità. Il pessimismo di fondo resta, nonostante l'apparente lieto fine; i due mondi restano separati, non convergono. Nel rispetto del fulcro tematico del testo, la conflittualità ed incomunicabilità tra realtà, Penn concentra il proprio sguardo su Helen e l'istitutrice, singolarità incarnanti identità precise che finiscono col convergere, e relega in uno spazio secondario i genitori, quali esponenti di una mostruosa normalità. Ancora una volta, come nel "Piccolo grande uomo" e in altri suoi film, Penn scieglie di stare dalla parte dei vinti. Il risultato di un lavoro così preciso e profondo sfiora il capolavoro. Merito anche di due attrici (Anne Bancroft e Patty Duke) nei cui volti è impressa la sofferenza di un mondo.

Arthur Penn, con le stesse due protagoniste (che vinsero l’Oscar), aveva già portato sulle scene e con successo (5 Tony Award, 719 repliche dal ’59 al ’61) questo intenso e toccante dramma di William Gibson, nato come episodio per la serie televisiva “Playhouse ‘90” (1957, con Teresa Wright e sempre diretto da Penn) e in seguito tagliato su misura dallo stesso scrittore su Anne Bancroft, che l’aveva riempito di soddisfazioni con l’interpretazione teatrale del suo “Two for the Seesaw”. Il realismo delle emozioni in campo è impressionante e il difficile rapporto fra maestra ed allieva ribelle si gioca sul tema del Male che proviene dall’innocenza e quindi, non può essere lasciato a se stesso. Per quanto sembri disperata l’impresa, lo spettatore si mette sulle spalle forti di Anne Sullivan e prega per un miracolo che, alla sua comparsa, è catartico: una guarigione che cambia punto di vista per essere attuata, passando per l’accettazione e la voglia di riscatto della “paziente”. A Penn il merito di aver combattuto contro la tentazione di un finanziamento delle Major che avrebbero sostituito la sconosciuta Anne Bancroft con star di maggior richiamo (Elizabeth Taylor e Audrey Hepburn): si auto-produsse ottenendo la distribuzione da parte della United Artists, s’affidò alla bravura delle interpreti, all’efficacia del testo teatrale (pentendosi in seguito dei dialoghi che vanno a scapito della macchina da presa), filmò in un bianco e nero espressionista fuori moda ma essenziale per restituire la lotta fra cecità e visibilità, e sperimentò il linguaggio nel nome dell’amato Orson Welles (le dissolvenze durante il viaggio in treno, ad esempio), sbaragliando l’efficacia di opere precedenti incentrate sull’handicap giovanile calmierato da tutori (Johnny Belinda di Jean Negulesco, Mandy la piccola sordomuta di Alexander Mackendrick).