Drammatico, Focus, Recensione

ANIMALI SELVATICI

Titolo OriginaleR.M.N.
NazioneRomania, Francia, Svezia
Anno Produzione2022
Durata125'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Matthias torna nel suo villaggio natio in Transilvania pochi giorni prima di Natale, dopo aver lasciato il lavoro in Germania. Vorrebbe seguire più da vicino l’educazione del figlio Rudi che, lasciato alle cure della madre Ana, è rimasto in balia delle sue paure infantili, ma è preoccupato anche per l’anziano padre, Otto, e vuole rivedere la sua ex amante, Csilla. Quando alcuni lavoratori stranieri vengono assunti nella fabbrica di Csilla, la pace della comunità è rotta e le loro paure, conflitti e passioni esplodono con violenza.

RECENSIONI

Che cosa distingue un film riuscito da un film sbagliato, nel 2023 (ma non solo)? Un film sbagliato rimane sulla carta. È un film che cerca di tenere insieme una serie di requisiti avulsi, ognuno idealmente corrispondente a ciò che vorrebbe un finanziatore e/o un frammento di pubblico da identificare inventandolo, e da inventare identificandolo. L’alchimia non riesce, e i singoli elementi coesistono, senza amalgamarsi in un tutto, galleggiando in un impasto amorfo e respingente.
Un film che nel 2023 è sbagliato perché corrisponde a questa descrizione, non è tuttavia sbagliato e basta. C’è una certa giustizia in questi fallimenti. Se un film, e soprattutto un film europeo, oggi viene schiacciato dall’astrazione burocratica della propria concezione (non sorretta da un’adeguatamente sintetica realizzazione), è perché l’astrazione burocratica, con i suoi linguaggi autoreferenziali e le sue implausibili cattedrali senza fondamenta, ha informato strati larghissimi della nostra vita economica, sociale e culturale da decenni in qua. Chiunque ha dovuto mettere insieme un progetto da finanziare attraverso l’Unione Europea o canali analoghi lo sa fin troppo bene.
Uno dei pochi, pallidi pregi di R.M.N. (questo il titolo originale) è che, oltre ad essere un film chiaramente sbagliato nei termini appena esposti, non solo esibisce i mostri generati da quel particolare sonno della ragione che è la ragione che decide di autoeclissarsi in astrazione burocratica, ma chiama pure con nome e cognome il maggiore responsabile di questo sonno: l’Unione Europea. Il caos di intolleranza creato in una piccola comunità rumena delle montagne transilvane a prevalenza linguistica ungherese, quando arrivano tre operai dello Sri Lanka, è esplicitamente dovuto alla necessità, da parte di un panificio industriale del posto, di aderire ad alcuni astrusi parametri solo grazie ai quali l’Unione Europea può elargire alla fabbrica i suoi finanziamenti.
Dopodiché, ovvio, pur avendo identificato nell’UE l’origine del male, il film sceglie di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, rappresentando tutta la comunità locale come un branco di buzzurri razzisti, suggerendo che se questi sono così tanto vale che non siano loro a governarsi da soli, e che si becchino senza fiatare qualunque cosa l’UE decida di imporre dall’alto. Ma se il cerchiobottismo è, in fin dei conti, un esempio ancora sanamente old school di politica (tradizionalmente intesa come composizione dei conflitti), Animali selvatici si muove su territori politico-retorici parecchio diversi, e molto più vicini all’orizzonte ideologico post-politico dell’UE.

Il faticoso intrecciarsi di eventi intessuto dalla sceneggiatura, infatti, serve non (come nella tradizionale, old school concezione della sceneggiatura) a legare i temi tra loro, ma precisamente a tenerli a distanza gli uni dagli altri. Solo Iddio sa quanto gli sventurati che di mestiere elargiscono finanziamenti europei amano i bullet point: strumento retorico che trasforma un progetto in una lista della spesa, grazie a cui chi sgancia i soldi può convincersi che avrà il suo tornaconto senza perdere troppo tempo, e chi dovrebbe sviluppare un progetto si crea un alibi per abdicare a qualunque sviluppo degno di questo nome in nome della compliance a parametri puramente astratti. Se, volendo bestemmiare, tirassimo fuori Le armonie di Werckmeister di Béla Tarr, ci accorgeremo che laddove il regista ungherese mostra l’unità dialettica tra tecnocrazia e reazione populista, Mungiu inserisce tecnocrazia e reazione populista nel suo film come altrettanti bullet point. E ciò che permette a Mungiu di buttarli là senza veramente connetterli organicamente (e ricorrendo tuttalpiù alla foglia di fico della meccanica strettamente narrativa: ad azione segue reazione, e questo è quanto), in pieno stile “richiesta di finanziamento UE” è l’inserimento di un terzo bullet point grazie a cui gli altri due vengono tenuti a distanza: la crisi della mascolinità. A interrompere un lungo dibattito tra tecnocrati e populisti, verso la fine, c’è non a caso un padre che si impicca.
Matthias, uno dei due protagonisti, è un operaio che torna nel villaggio transilvano dopo aver lasciato il lavoro in Germania a seguito di una colluttazione violenta con un collega che l’ha chiamato “zingaro”. Verso di lui, il film nutre una certa benintenzionata tenerezza; non c’è alcun dubbio che Mungiu guarda con ammirazione agli sforzi di Matthias di essere un buon padre, e di insegnare al figlio (riconoscibilmente segnato dalla sua assenza per motivi di lavoro) a “essere uomo”, virile e quant’altro. Ai due concede sufficiente tempo e spazio (isolandoli nel tetro paesaggio montano) per togliere definitivamente di mezzo qualunque dubbio: Mungiu, nell’approcciarsi con affetto a quel personaggio, è sincero. Altrettanto indubitabilmente, Mungiu guarda con quantomeno parziale disprezzo a Csilla, la sua amante, che ha fatto carriera nella fabbrica di pane in gran parte accollandosi gli insopportabili progetti di finanziamento europeo: il suo ritratto è quello di una donna benestante rassegnata alla solitudine, che nella casetta ristrutturata dei suoi si mette a strimpellare al violoncello lo Shigeru Umebayashi di In the Mood for Love di fianco a un bicchiere di vino rosso. È un ritratto giustamente privo di empatia perché con il mondo circostante Csilla non vuole avere nulla a che fare: è anzi, questa, la base e la condizione del proprio privilegio di classe.

Non è peregrino parlare di “classe” in un film del genere. Mungiu si concentra su due individui parzialmente difformi rispetto alle proprie classi di riferimento: qualche dubbio sulla xenofobia dei compaesani (non foss’altro che perché è stato emigrante a propria volta) Matthias ce l’ha; Csilla si differenzia riconoscibilmente dalla cieca, ottusa “proattività” manageriale della sua capa. C’è però un dettaglio-chiave che condanna R.M.N. all’imperdonabile: se Matthias è un sintomo vivente di una mascolinità benintenzionata ma in profonda crisi (il finale, circolarmente simmetrico rispetto all’inizio, condanna Matthias alla definitiva infantilizzazione), e cosciente di essere in crisi, solo a Csilla è riservata la prerogativa di far seguire alla coscienza l’azione. L’unica cosa giusta da fare, in un film indubitabilmente imperialista come questo, è abbandonare i margini per il centro: Csilla, alla fine, emigra lei stessa in Germania.
Sono molte le ragioni per cui questo è un film indubitabilmente imperialista - come è giusto aspettarsi da un film i cui soldi vengono principalmente del centro e dal nord dell’Europa. In primis, perché i margini (la provincia dell’Est europa) vengono visti come irrimediabilmente prigionieri delle proprie contraddizioni – e dunque irrimediabilmente destinati a farsi gestire dal centro (Germania e affini). E poi perché, se la condizione principale per la resistenza nazionalista contro l’imperialismo è l’alleanza tra proletariato e borghesia (il terzo cinema ce lo siamo già dimenticati?), R.M.N. suggerisce che tra proletariato e borghesia non può che esserci, letteralmente, che un fuggevole flirt prima che la borghesia torni anc(s)illa degli interessi dell’imperialismo internazionale. E visto che non ci facciamo mancare niente, all’imperialismo abbiniamo pure un bell’ornamento orientalista, di agghiacciante provincialismo: anziché fare dei tre srilankesi degli anemici santini immacolati, vogliamo chiedere a loro se con la convivenza di due diversi gruppi etnici se la sono cavati meglio i transilvani oppure loro, che hanno appena finito di sgozzarsi reciprocamente tra tamil e singalesi per più di venticinque anni?
Mungiu non è uno stupido. Mungiu sa benissimo che, per lavorare in un continente in guerra, deve per forza fare propaganda imperialista. Sapendolo, inserisce degli elementi che vanno in direzione contraria rispetto all’inevitabile framework propagandistico: inserisce, cioè, adesione sincera per Matthias e malcelato disprezzo per Csilla. Ma non va abbastanza a fondo, in maniera non dissimile da Matthias che capisce dove sbaglia, ma non assume fino in fondo le conseguenze di tale consapevolezza. Mungiu non spinge insomma sull’acceleratore fino a consegnare il film a una vitale, sintomatica incoerenza. Dire che gli sono “mancate le palle” per farlo, però, significherebbe cadere nelle stesse contraddizioni stigmatizzate dal film. Non sono quelle a essere mancate – o comunque, non ha davvero importanza. A essere invece effettivamente mancata è la ghignante, cinicamente rosselliniana, spregiudicata cialtroneria di un Makhmalbaf – che (poniamo) con un Gabbeh (1996) sovvertiva fino a sfigurarlo e rivoltarlo come un guanto il realismo magico (oggetto di fatwa in patria) cui lo confinava a quei tempi il mercato del cinema globale.
Mungiu invece si tiene al di qua di questi salutari eccessi, perché si rifiuta di mettere carne intorno allo scheletro. Come Csilla, si accontenta della lista della spesa che l’UE vuole vedere per sganciare i soldi. Se ci sono soldi francesi, inventiamoci un damerino coi baffetti e capigliatura parigina venuto dalla Francia a contare gli orsi per ragioni accademiche. Se Csilla sente bisogno di protezione, inventiamoci un tic (il freddo che sente appena mette piede fuori, la teoria di scialletti e maglioncini che si mette ossessivamente sulle spalle) per esprimere questo aspetto psicologico. Tutto però rimane poveramente a sé stante, senza mai coagularsi in qualche convincente unità. Tutto rimane astratto e parcellizzato. La cartina di tornasole di questo atteggiamento è la paurosa, imbarazzante assenza di “chimica” comunitaria tra gli abitanti di quel villaggio: tutt’altro che una scelta consapevole (per sottolineare, poniamo, l’intima divisione di quel gruppo), essa è visibilmente dovuta semplicemente all’incapacità di Mungiu di girare le scene di gruppo, di creare complicità tra gli attori quando in un’inquadratura sono più di due o tre. La foglia di fico di questa incapacità non è che la tanto lodata mise en scène di Mungiu, che qui abbandona ogni cascame di pedinamento neo-neo-neorealista e dardenniano per limitarsi a un elegante storyboarding che da conversazione intima passa fluidamente, e con lodevole armonia compositiva, a conversazione intima trovando un po’ di posto per un paesaggio in tinte bluastre lunarmente, invernalmente, ostilmente ingrato, manifestazione immediata di come nozioni come “ambiente” e quindi “comunità” siano, nell’ottica del film, intrinsecamente intenibili e anacronistiche. Occasionalmente, lo storyboarding si interrompe in favore di qualche pezzo di virtuosismo simile a quelli per cui Mungiu è già famoso (anche il brand autoriale vuole la sua parte): inquadrature totali che sparpagliano l’azione in più centri di interesse senza suggerire allo spettatore dove guardare. Ma è un’orizzontalità meno baziniana che espressione manifesta della piatta orizzontalità addizionale che, implicitamente, le richieste di finanziamento all’UE caldeggiano.
Come Matthias nell’ultimissima scena, insomma, Mungiu spara un po’ tutte le sue cartucce stilistiche in mancanza di una strategia di resistenza che abbia qualche chance di successo. Si tratta però di colpi a vuoto, se non addirittura a salve, perché le sue non sono cartucce (bullets), ma bullet points.

Lo spirito che muove l’ultimo lavoro di Cristian Mungiu si configura nel concetto di disgregazione. Ciò che in apparenza viene immediatamente meno è la comunità, schiacciata sia da entità politiche esterne distanti e cieche, sia da forze xenofobe interne che si dipanano come violente reazioni alimentate dall’istinto di auto-conservazione. La ricaduta inevitabile di questo processo investe, di conseguenza, la dimensione sentimentale, lasciando sul campo una serie di relazioni soffocate da un contesto all’interno del quale lo stato di sopravvivenza totalizza ogni ambito dell’esistente. Infine, a chiusura del cerchio, è l’universo interiore dell’essere umano a disgregarsi, la mente frammentata in un sistema che manifesta solo distanza, separazione, conflitto.
Animali Selvatici (il titolo originale R.M.N. riflette in maniera decisamente più diretta la tensione di cui sopra: da una parte, il macrocosmo sociale/nazionale; dall’altra, il richiamo alla risonanza magnetica rivelatrice del degrado psichico-individuale) disegna questo percorso muovendosi su un crinale assai sottile, pericolosamente diviso tra una messa in scena limpida e geometrica in grado di portare in superficie tutte le contraddizioni espresse poc’anzi (magistrale, a proposito, la sequenza dell’assemblea del villaggio, costruita su una sola, statica inquadratura nella quale le dinamiche interne prendono lentamente forma attraverso un’ingegnosa suddivisione dei piani) e una serie di elementi allegorici decisamente più presenti rispetto alle opere precedenti del cineasta romeno (il bambino veggente, la malattia di Papà Otto, le maschere a forma d’orso…). In questo senso, è proprio la mancanza di equilibrio tra questi poli che finisce per stemperare, talvolta, la complessità del discorso in un campionario simbolico monodimensionale, rischiando in questo modo di appiattire la figura umana a un sommario, inflazionato archetipo bestiale.