Mélo

ANGEL

Titolo OriginaleAngel
NazioneFrancia/ Belgio/Gran Bretagna
Anno Produzione2006
Genere
Durata132'
Tratto dada un racconto di Elizabeth Taylor
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Successo, amore, fallimento e morte della scrittrice Angel Deverell nell’Inghilterra di inizio secolo.

RECENSIONI

Spudorata. Questo è l'aggettivo che più si addice all'ultima fatica di François Ozon. Abbandonati gli intellettualismi da ultimo arrivato che affliggevano alcune delle opere precedenti (nate vecchie e presto dimenticate), il regista riprende il personale percorso di rivisitazione dei generi iniziato con Otto donne, adattando un racconto di Elisabeth Taylor (1912-1975) che è un incredibile concentrato di luoghi comuni sul sogno amoroso e sulla smania di successo (lotta tra libertà e conformismo, tra sogno e realtà), nella scelta del quale il regista sembra aver fatto propria una massima di Douglas Sirk sulle fonti del melodramma cinematografico: noi attingiamo dalla spazzatura...
L'angelica eroina, scrittrice di romanzacci rosa, ridisegna la dimora sognata da bimba, la propria 'casa di bambola', una sorta di Xanadu dei sentimenti, prigione dorata e kitsch nella quale riparare separandosi dal mondo (dimenticandosi di 'vivere la realtà'). Figlia dell'Ottocento, la donna è unasorta di Madame Bovary che non legge i feuillettons ma li scrive (dunque una Bovary 'al cubo'), e come la protagonista del romanzo di Flaubert costruisce i rapporti umani ed amorosi sulla scorta delle letture (qui scritture) fatte/partorite: entrambe sono eroine vittime della cattiva arte, potremmo dire, che credono che il Bello sia una categoria estetica riconducibile all'Eccessivo. L'arte non imita più la vita, ma imita il sogno e, parafrasando Wilde ed il suo paradossale 'rovesciamento', la vita imita il sogno, diviene sogno. Infatti, scrivere di ciò che non si è vissuto e sperimentato (libero esercizio dell'immaginazione) significa, per la protagonista, rinnegare la realtà e optare per il sogno: il principio di piacere si impone su quello di realtà e pure la morte diventa un orpello di pizzo nero da ostentare al cimitero leggendo un peana funebre menzognero. Ostinazione, abnegazione, volontà di apparire più che di essere, di costruire fragili regni di cartapesta: itinerario prevedibilissimo, dalla prima all'ultima inquadratura. Non a caso, la vera storia d'amore, quella non sognata/idealizzata tra la protagonista e la Lucy Russell vista e amata ne La nobildonna e il duca, saffica e di struggente intensità, è posta ai margini del racconto ed 'esploderà' solo nel finale.
E' evidente che l'interesse di Ozon non risieda nella messa in scena, in bella forma, di un plot originale, ma nel prendere la materia di partenza, incredibile campione di una tradizione 'sentimentale' figlia degenere del tardoromanticismo, e piegarla e deformarla fino al grottesco, rendendo quasi sublime cotanta stucchevole e programmatica esibizione di buone cose di pessimo gusto (tra le tante, una piuma di pavone gettata su una tomba, un bacio che suggella l'inizio di un amore scambiato sotto la pioggia, con tanto di arcobaleno ad avvolgere, come un'aureola camp, i due amanti...). Come disse Eco a proposito del sentimentalismo, due o tre clichè sono indice di cattivo gusto, ma un catalogo ragionato di ornamenti e situazioni kitsch può essere addirittura commovente.
Romola Garai presta il volto ed il corpo al personaggio principale, prendendo a modello la Viviane Leigh di Via col vento e la Bette Davis di La figlia del vento, così come Ozon sembra guardare al Cukor di Piccole donne e al primo Minnelli nella prima metà (la costruzione del sogno-Amore), mentre la seconda parte (de-costruzione del sogno-Morte) viene dritta dal Wyler più barocco e malsano (ad esempio, il ritratto modernista di una 'passatista', splendida e tragica 'contraddizione visiva' che sintetizza efficacemente il senso ed il cuore del film, sembra uscito dai drammi dei registi succitati, piuttosto che dalla 'letteratura alta', Ritratto di Dorian Gray in primis).
Ozon, come Flaubert, è e vuole essere il doppio cinematografico della scrittrice Deverell, l'occhio meccanico novecentesco che si confronta e fa proprio l'universo culturale e sociale di un altro secolo. Lo sguardo adottato non è oggettivo e distanziato ma deformato, essendo il punto di vista privilegiato quello dell'eroina: viviamo e condividiamo, visivamente, il delirio infantile ed amoroso della donna; non ci struggiamo per lei, ma con lei. In questo modo, il regista riesce in un'impresa non da poco: cogliere il senso intimo, l'anima ingenua e fanciullesca del feuilleton e donarla allo spettatore di oggi che, se ben disposto, non potrà che goderne. Angel mira ad essere (ed in fondo lo è) non già un’operazione nostalgica o postmoderna (concetto/ombrello che andrebbe emarginato dagli studi prima che finisca con l'inghiottire noi tutti), ma un oggetto anomalo fuori del tempo e dalle mode, non (solo) un film ambientato all'inizio del XX secolo,ma un ipotetico film 'tardottocentesco', ovvero un'opera che sembra un prodotto di quel tempo e non solo una riflessione su quell'epoca, fragile e vulnerabile come l'universo costruito dall'eroina, che si strugge al calore delle bombe e che al rosso sangue preferisce il color porpora delle tappezzerie. Angel sta al mondo che rappresenta come il raggio verde al tramonto: ultimo anomalo bagliore di un modus imaginandi e vivendi spazzato via dal disagio, dal malessere, dal dolore che il nuovo secolo porterà con sé. Dietro la patina ed oltre le cortine color malva si nasconde una visione del mondo disperata, tragicamente consapevole della fine del tempo/dei tempi in cui era lecito/legittimo sognare.

La tessitura del film di Ozon risplende in una messinscena di sagace scansione narrativa ed efficace climax drammatico; qualità che difettavano in Swimming Pool, altra opera del francese tesa a esplicitare l'assunto della creazione letteraria quale estrema salvezza e definitiva condanna dell'individuo. Qui, l'arido intellettualismo d'una dimostrazione è bilanciato da una necessità tutta interna alla fabula; la medesima che in Sotto la Sabbia aveva lievitato, fino ai bagliori della tragedia esistenziale, l'irresoluto contrasto fra la rimozione/reinvenzione del reale e il suo testardo riemergere. La forza intrinseca del narrato, col concorso d'immagini smaglianti, di scarti improvvisi (l'irrompere della realtà della guerra, tenacemente elusa nel quotidiano, sulle pagine di romanzi che non sanno più rispondere alle richieste d'evasione del mercato), di un'ironia perfida ( sussurrò le parole immortali: 'Questo è il giorno più bello della mia vita'), vivifica un'allegoria praticata tanto frequentemente da essere divenuta un luogo comune - ma qui visualizzata in modo eccezionalmente felice - e risuscita l'affascinata meraviglia dello spettatore, se non la sua partecipazione, di fronte a vicende improbabili, estreme, semplificate all'eccesso sul piano psicologico. Il melodramma à la Sirk incontra in Ozon, più che in Haynes, il suo più raffinato restauratore: laddove l'americano si preoccupava in Lontano dal Paradiso di donare nuova credibilità ai personaggi e attendibilità drammatica ai loro casi, il francese li assume in tutta la loro originaria essenza di ridicolo e sublime (quell'essenza, caratteristica del melodramma in genere e di quello di Sirk in particolare, di cui Fassbinder aveva brechtianamente mirato a valorizzare le istanze critiche), recuperando alla protagonista finanche i tratti dell'eroina di Margaret Mitchell (come dire la matrice di innumerevoli eroine da feuilleton). Oltre il comune denominatore di una colta cinefilia (strategia del riuso e autoriflessività del cinema), se l'operazione di Haynes può definirsi modernista quella di Ozon è un ammirevole esempio di erudito e ironico neoclassicismo; a conferma, le foglie al vento e le scene madre di sirkiana memoria compaiono tanto in Angel quanto in Lont ano dal Paradiso, ma il loro impatto nell'economia delle rispettive opere è paradigmaticamente distante.

You're just a frustrated Englishwoman
who writes about dirty things
but never does them.
Swimming Pool

Angel Deverell come giovane Sarah Morton (benché Romola Garai assomigli più a una Sagnier versione damigella fin de siècle che alla solita, stupenda Rampling, che ha qui il ruolo di acido e acutissimo Coro), ma anche suo esatto contrario: non vampiro che alimenta le proprie creazioni fantasticando sulla vita altrui, ma abile maquilleuse che trova in un'ispirazione torrenziale e meccanica il veicolo e il modello di una metamorfosi (la vita come specchio del sogno) che rivela ben presto la propria fragilità. Da ragazza ingenua quanto sicura di sé (capace di 'uscire dal branco' per inseguire le proprie allucinazioni) a Diva da copertina (geniale la sequenza composta dai ritratti pubblicitari, che come in un calendario scandiscono il passare delle stagioni e il consolidarsi della fama dell'autrice), a prigioniera (in)volontaria di una gabbia dorata (la casa del Paradiso, ma anche un matrimonio che sembra più il frutto di un capriccio astioso che una passione da romanzo) in cui inevitabilmente (vedi 8 Femmes) si manifesta l'Angelo della morte (l'inquadratura che ci svela il suicidio di Esmé), la scrittrice chiude gli occhi e lascia che la vita le scorra addosso, finendo per essere una cosa sola con la propria effimera opera (i capelli neri sciolti sul corpo nudo come tratti di penna su un foglio: immagine greenawayana nella sua essenziale crudeltà). Finché, nel confronto conclusivo con l'Altra, Angel scopre di essere stata, nel romanzo della vita di suo marito, un personaggio secondario. Ed è in questa scena che il regista, messi da parte i vezzi stucchevolmente deliziosi (e viceversa) disseminati nel corso del film (pacchiani trasparenti in primis), trova una secchezza che spiazza e ferisce in pari misura, passando dal macabro incanto di un Harlequin pervertito (simile a quello scritto dalla madre di Julie in Swimming Pool?) a un felpato orrore alla Henry James: non più fata, Angel si rivela orrida strega (eloquente la reazione del bambino), larva su cui il Tempo lascia d'un tratto la propria traccia (ed è questo il punto in cui più intensamente si manifesta il Dorian Gray evocato da Manuel Billi), mostro ridotto in polvere dalla pallida luce che finalmente filtra attraverso le pesanti cortine di broccato, mentre le vittime (la segretaria e l'editore) ritrovano un'amara libertà solo davanti alla sua tomba.

Ma insomma, chi le ha insegnato i fatti della vita?
(Zia Lottie)
Ozon si applica al filone e lo distrugge. E’ così che il melodramma fa l’identica fine del cancer movie ne Il tempo che resta: analizzato, rivoltato, stravolto, riscritto. Qui sta il trucco: se l’autore francese, manovrando su binari di genere, sembra lasciare indietro l’opera del tutto personale, spegnere i debordanti furori delle prime volte (Sitcom, ma soprattutto Amanti criminali) e consegnare con Angel un congegno chiuso e compiuto su base sia estetica che concettuale – proprio il contrario dei succitati, amabili lavori: laddove a sgomentare era l’unione voluttuosa tra sfacciata personalità e felice irrisolutezza -, insomma girare il film che rimarrà (lo conferma il consenso unanime, vedi accoglienza cannense e italiota, ma attenzione: chi scopre oggi Ozon si sveglia con dieci anni di ritardo), in realtà le cose stanno in altro modo. A ben guardare, infatti, è dietro l’innocua gabbia del genere che urlano e fremono pulsioni ozoniane: tra tutte, mirabolante marchio di fabbrica, splende la sequenza erotica tra Angel e Nora, un affresco di sintesi lesbica mostrato appena ma che continua e quindi, lontano dai nostri occhi, trova indecifrabile fine. Dietro la comoda cortina degli affetti c’è la verità: non nei legami tradizionali (uomo, donna, moglie, amante) ripone la risposta ai quesiti sterili del vivere; l’esistenza effettiva slitta da quella sognata, due livelli che stridono e generano mostri; la sincerità non abita mai nel quadro complessivo ma vive sempre di frammenti (lo scambio Angel/Théo alle porte di Paradise, ancora un brandello, come la schermaglia tra Romain e la nonna nel film precedente); gli affetti convenzionali devono crollare perché autoinganni consapevoli; siamo noi che ci inchiodiamo a noi stessi. Ozon indaga il sesso degli angeli e firma un massacro in piena maturità stilistica: contro ogni prassi (più contro di quanto sembra), in spregio all’abitudine precostituita, un altro genere è stato sventrato.
Ma insomma, monsieur Ozon, chi ti ha insegnato i fatti della vita?

L'impressione personale possiede dignità critica? Forse. E allora è nello spazio di questo avverbio dubitativo che ficco le mie considerazioni, al solito inessenziali (una lettura recente mi insegna che ho appena usato un cleuasmo: 'figura di argomento che consiste nello sminuirsi da parte dell'oratore', Alberto Pezzotta, La critica cinematografica, Carocci, 2007, p.87). Ebbene, delle due anime del cinema ozoniano - una sottratta, velata e minimale (Sotto la sabbia, 5x2, Il tempo che resta), l'altra satura, sgargiante ed eccessiva (Sitcom, Amanti criminali, 8 donne e un mistero), con Gocce d'acqua su pietre roventi e Swimming Pool a fare da film d'intersezione - Angel mi pare dire apertamente, anzi incarnare compiutamente la seconda. Qui, infatti/difatti/non è chi non veda, le escandescenze del mélo si oggettivano filmicamente in cromatismi schioccanti e artificiosità impudenti, saettando un gusto dell'utrance e un'ebbrezza della rêverie che trasudano autentica passione e sincerità. La dismisura si inscrive nello schermo senza lasciarsi inquadrare compiutamente, al contrario si insinua tra un piano e l'altro, tra un ritratto e l'altro, incendiando di desiderio il fuori campo, un desiderio screziato di inganno e menzogna. Se la prima parte, di chiara impronta (pseudo)biografica sconta una misura stilistica eccessivamente sorvegliata, con un dettato visivo che non si discosta dall'esattezza dell'impaginazione, la seconda, complice la deflagrazione del mélo, si apre al turbinare della fantasmagoria, impennandosi in uno stile sfacciatamente flamboyant che sfreccia intrepido verso l'inverosimiglianza e la sfrontatezza. I registri emotivi ed estetici si alternano dissennatamente lasciando guizzi e strascichi acidi e corrosivi. Volteggia su tutto l'estro perfido della moda che, macabramente volubile, declassa l'ex-fenomeno letterario e nobilita il sepolcro pittorico fuori tempo massimo. Beffa tombale a Paradise House, o dell'impressionismo critico (Cleuasmo in clausula).

Una breve riflessione a margine.
Come scrive Manuel Billi, Angel non è un'operazione postmoderna, piuttosto la celebrazione in grande stile del melodramma, cui il regista dona sgargiante riviviscenza: Angel come alto esercizio per il nostro amato Ozon, mai così sirkiano (come poteva esserlo, in chiave più problematica e meno esplicitamente hollywoodiana, Fassbinder) nel suo rispetto sostanziale del codice e del dispositivo retorico prescelto, nel suo cogliere il senso intimo, l'anima ingenua e fanciullesca del feuilleton e donarla allo spettatore di oggi (ancora Billi). L'unica cosa che non mi sento di condividere è l'entusiasmo, e non perché lo trovi ingiustificato (il film è perfetto anche e soprattutto nel suo rifiuto di una manifesta coscienza filologica), quanto piuttosto perché il regista mi pare giocare in casa senza avversari: è nel suo, ci si muove da gran signore, va di pilota automatico con nota maestria. Manca al film una sfida, il rischio (non nel resuscitare il mèlo oggi, che quello, almeno a livello commerciale, è anzi un azzardo, ma) a livello propriamente artistico; Ozon non deve dimostrarci quanto è bravo, deve semplicemente esserlo: a me piace l'autore che suda, che si misura con il film e che tenta di superarsi; qui invece il regista spadroneggia in un territorio che sappiamo conoscere a menadito e col quale non ha bisogno di confrontarsi ché ci si rispecchia in toto. Si apprezza tutto, sia chiaro, soprattutto il roboante cambio di marcia (e di registro) di una seconda parte da incorniciare (Baratti lo evidenzia bene) con la sublime resa dell'eroina che affida le sue bugie e i suoi sogni a fogli scritti e che un foglio scritto farà ripiombare in una realtà fatta di altre bugie (quelle del marito), una realtà che non ha gli strumenti per riconoscere e affrontare e nella quale non potrà che soccombere.
Forse un oggetto così nella filmografia ozoniana ci sta e fa curriculum ma, davvero, dopo mezz'ora sappiamo che la partita è finita, che la squadra del cuore si porterà i tre punti a casa: non abbiamo che da attendere il fischio finale e, applaudendo, meditare sul fatto che sono i risultati sofferti quelli che ci entusiasmano di più.