TRAMA
Anne è un’avvocata che vive a Parigi col marito Pierre e le loro due figlie. Il diciassettenne Théo, il figlio di Pierre nato da un precedente matrimonio, si trasferisce da loro…
RECENSIONI
Con Il potere del cane, Jane Campion aveva rotto un silenzio durato anni, principalmente per collocarsi in maniera autorevolmente trasversale rispetto all’ideologia woke contemporanea – proprio lei che per anni era stata la “femminista ufficiale” del cinema globale.
Con questo nuovo film, Catherine Breillat fa più o meno la stessa cosa. L’été dernier è un treno lanciato contro una certa idea di empowerment femminile, e segnatamente un’idea molto popolare nel dibattito anglosassone mainstream: quella secondo cui della condizione femminile andrebbe restaurato innanzitutto il riconoscimento di appartenere a una posizione di inattaccabilità morale. Semplificando (ma non troppo), la formula che riassumerebbe questa angolazione (rappresentata esemplarmente, nel concorso di Cannes 2023 in cui anche il film della Breillat è stato presentato, da Anatomie d’une chute di Justine Triet) potrebbe essere: la donna è vittima, quindi innocente, quindi merita una parità altrimenti negata.
La Breillat invece ci fa simpatizzare con una donna che sbaglia, mente e fa di tutto per difendere la sua falsa versione degli eventi. Nonché, scandalo degli scandali per i moralisti politicamente corretti contemporanei, predica bene e razzola male. Avvocata specializzata in abusi minorili, tradisce il marito con il figliastro che lui ebbe con un’altra, e nega l’evidenza ribaltando le carte in tavola, accusando il marito di volerla mettere in posizione sfavorevole (come ribaltamento “difensivo” dell’assai attivo supporto emotivo che lei fornisce a lui). Per riuscire a mentire efficacemente, lei formula esplicitamente questo desiderio di lui, che lui non arriva mai a confessare e probabilmente nemmeno a sospettare; lui, però, abbozza davanti a un tradimento di lei che finge di non conoscere. La complementarità è geometricamente precisa, e quel caposaldo del regime patriarcale chiamato “matrimonio” è più salvo che mai. Come siamo passati a ciò partendo dal lato opposto del lato di moebius, che è quello che sembravamo percorrere all’inizio del film e che sembrava indicare che l’unica cosa che sembrava contasse fosse l’edonismo di lei, è impossibile a dirsi, e questo non è il minore dei pregi del film.
Non la prima apologia della menzogna ai fini del mantenimento dello status quo matrimoniale, naturalmente. Citofonare, per dirne uno tra tanti, Claude Chabrol. Ciò che però fa di L’été dernier un grande film, è che, a differenza di Chabrol e degli altri, Breillat gioca sulla tensione insostenibile tra la menzogna di cui fa l’apologia, e uno stile franco fino alla brutalità (non si dovrebbe mai dimenticare che tra coloro che tennero a battesimo Breillat ci fu Maurice Pialat), carnalissimo, che non si tira indietro nemmeno davanti ai lati più imbarazzanti della sessualità. Ma anche quando non tiene la cinepresa immobile e crudamente impassibile davanti al sesso (cosa che naturalmente fa spesso), Breillat continua a colpire, anche a decenni dai suoi esordi, per l’abilità poco eguagliata di tracciare i contorni di un personaggio con una posa, un’occhiata, un tic, un’esplosione violenta – anche quando le fluttuazioni delle relazioni tra i personaggi (inclusa quella “estrema”, tra l’atteggiamento materno – o sostitutivo del paterno – e l’attrazione sessuale) vengono impercettibilmente registrate in lunghe scene di impianto spiccatamente frontale.
Il contrasto tra l’astrazione della finzione e la concretezza del sesso non è l’unica collisione dialettica su cui il film gioca. L’été dernier comincia con l’alternarsi di due primi piani. L’avvocata arrivata, pienamente in possesso delle proprie emozioni, e l’adolescente (sua cliente) visibilmente sconvolta da ciò che prova. Com’è noto, la Breillat si è specializzata con molte opere sull’età “ingrata” di poco successiva all’infanzia; qui però sembra far sfumare l’opposizione stessa tra il controllo e l’esplosione, tra l’età adulta e l’adolescenza. Se femminismo vuol dire superare l’ottica binaria, allora si vada fino in fondo e non ci si tiri indietro nell’utilizzo della dialettica, fino al decisivo crinale tra Corpo e Spirito: questo sembra suggerirci la Breillat.
La finzione è più importante della realtà. Non si tratta, però, del cinico relativismo utilitarista degli avvocati. Solo la finzione apre la possibilità non della coerenza, non dell’incoerenza, ma della coerenza dell’incoerenza: definizione, quest’ultima, tra le più accurate possibili dell’unione coniugale.
«Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere, e chi rifiuta di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista» (dall'ultima intervista di Pier Paolo Pasolini)
«Everywhere is six-sex-six by luck» (Sonic Youth, Dirty Boots)
FOTOROMANZO
Si è parlato molto del film che ha rotto il decennale silenzio di Catherine Breillat, solitamente della trama, della storia che a quanto pare dovrebbe scandalizzarci. Lei ribatte, ridendo sessantottina, che la legge contro l'incesto è entrata in vigore in Francia solo dopo la fine delle riprese. In realtà, essendo un remake commissionato, la sceneggiatura ricalca gli snodi narrativi dell'originale danese Dronningen. Breillat mette piuttosto la cifra autoriale nel disinteresse per la distinzione e la gerarchia valoriale tra vero e falso, nella "simpathy for the devil", nel sonoro je m'en fous rivolto a una certa idea di arte edificante secondo derive neo-puritane di area woke anglosassone e anche a relative correnti femministe. Ancora un'estate è soprattutto una nuova lezione di teoria dello sguardo e del cinema con l'orgogliosa autorialità, il pedinamento dell'esistenza cui siamo abituati e la solita noncuranza per le mode e il consenso dei contemporanei, la stessa libertà - anzi liberté perché più magnificamente francesi di così non si può. I registi si potrebbero dividere in due categorie: chi mostra le funzioni fisiologiche primarie e chi no. Chiaramente Breillat sta tra i secondi. Chi è scandalizzato dal suo cinema, probabilmente è scandalizzato dalla realtà. Il sesso - non va spesso così anche nella vita? - è prima di tutto un alibi, una leva, un grimaldello perché la camera-occhio (c'è sempre Bataille in Breillat) possa spingersi dove normalmente non si andrebbe, possa penetrare spazi fisici e emotivi più intimi e reconditi, stanze segrete e stati liminari ed estremi, le zone grigie dove gli esseri umani sono nudi, senza esoscheletro, ultra-vulnerabili. La provocazione percepita è l'occhio-bisturi, l'occhio-sonda che entra dentro una forma di vita. La metafora chirurgica è doppiamente attiva perché l'oggetto dello sguardo spesso è la pelle, la texture dei corpi. Perciò Ancora un'estate si può spiegare stirando la superficie di certe scene chiave meglio che tramite epistemologia.
La signora apre il film in primo piano, nel mezzo di un interrogatorio. Guarda fissa - la ragazza in controcampo, non noi, non la camera - lasciandoci leggere nel volto le informazioni utili. È bella, ha un eleganza blasé e qualche ruga e segno del tempo. Mostra la durezza strumentale che sa esercitare all'occorrenza chi è sicuro del suo posto nel mondo.
Il ragazzo dall'aspetto cherubinico fa il suo ingresso nel film seminudo e strafottente, espone/impone il corpo erogeno, angelo della morte e del sesso freudianamente congiunti. E quando entra in scena arrivando dal giardino comunica il passo elastico, il baricentro fisso, l'andatura calma e certa del post orgasmo.
Tornando dalla gita al fiume, la Mercedes è inquadrata di traverso come nella copertina di Goo dei Sonic Youth con gli amanti criminali in fuga. Fila nel paesaggio dritta come un fallo, imperturbata e aerodinamica come uno squalo. L'inquadratura ondeggia, precede e affianca, si avvicina e allontana perché sia chiaro che sta su un altro mezzo a motore e la gara, la pista passino adrenalina all'immagine. Si sente Dirty Boots, canzone sessuale dalla struttura a forma di carica a molla. La musica dice analogicamente che dentro l'auto monta lo stesso accumulo di pericolo e tensione erotica e non potrà portare altro che un rilascio selvaggio e urla noise. Come scrive il solito Bataille siamo dentro il momento in assoluto più erotico: quando l'interdetto, il tabù è sul punto di essere infranto ma non è ancora sospeso, è attivo, ci troviamo ancora nel pieno del suo dominio psichico. La prossemica, gli sguardi di entrambi, che ogni tanto si incontrano, sono gonfi dell'eccitazione che somma e moltiplica la giornata al fiume, i bagni, il sole, il corpo nudo esibito, guardato. Le bambine sul sedile dietro giocano e si addormentano e non possono capire perché la madre e il fratellastro non dicono niente.
L'andare veloce, il paesaggio che scorre. La luce si smorza, la notte è un felino in agguato, per qualche secondo la camera si gira inquadrando il controcampo, un crepuscolo con cime d'alberi che spuntano da un campo di grano. Resterà una retrovisione allo stesso modo in cui capita, guidando di notte, che un rapido balenare di una scena sferzi come araldo di una diversa vita possibile in cui si è mollato tutto e ripartito da zero, come la bestia nella jungla.
In giardino rohmeriani, lei in rosso, lui in blu. La camera è frontale poi in close up asseconda l'avvicinamento, stringe il quadro a un braccio preda, una testa dallo sguardo lupesco e una mano che serra e un pollice che accarezza. Quando il ragazzo tatua la matrigna siamo nel primo momento di intimità tattile, un senso secondo dopo che al fiume gli occhi hanno perlustrato il corpo dell'altro. Si arriva al bacio da una prossimità di volti che superano la soglia dell'intimità senza preavviso, come prendendo una china inevitabile che porta senza parole verso la prima scopata. I volti accostati riempono diagonali il quadro come fosse Bergman, senti che gli attori - e quindi i personaggi - annusano il fiato reciproco, nuovi sensi sono coinvolti.
La seconda scopata, caravaggesca per precisa dichiarazione di Breillat, ricorda anche la serie erotica di Nan Goldin dedicata al nipote Simon e fidanzata nella villa di Avignone. La camera, il macro, il punctum è sui volti per scelta. Lei è una testa sprofondata nel cuscino, immobile, tumefatta, i lineamenti stemperati. Non sembra la petite mort, sembra proprio morta. La testa di lui - le labbra lampone, la chioma da cherubino di Botticelli - fa su e giù, dentro e fuori dal margine alto del campo come uno strumento di supplizio. È tutto talmente intenso, perverso che speri non sia simulato. E porta a parteggiare per la perdita del controllo, per lo sfascio, la morte sociale, la morte a Venezia. A desiderarle.
E poi la scena iconica, presa dal Teorema pasoliniano insieme al senso di insieme, quando il dialogo composto della coppia conforme borghese in veranda prelude alla catastrofe e dietro il vetro si materializza il ragazzo seminudo: la sovversione, la minaccia, lo spettro e il sesso. L'angelo sterminatore. Breillat fa sentire tutta l'irresistibilità dell'attrazione, l'inevitabilità dell'abisso perché il nostro sguardo è convogliato alla finestra, relega il primo piano a rumore di fondo. Il sex appeal si manifesta sulle superfici e, in questo caso, sull'inorganico perché siamo magnetizzati da un'immagine sfocata, un riflesso.
E infine la scena finale preludio all'ultimo amplesso. Il tetto/letto coniugale ricomposto è un oceano verde nero, un golfo d'ombra, un controspazio vischioso. Per associazione torniamo a pensare a un video di operazione chirurgica virato a quadro barocco, dai tessuti al tessuto. In un film in cui gli effetti di luce e il conflitto tra interno e esterno sono tutto, l'oscurità lavica della stanza è automaticamente un paesaggio, il doppio complementare delle scene en plein air dove il verde respira e soverchia. Lei naviga attraverso il letto-oceano per raggiungere la porta e ricongiungersi al ragazzo in una diversa oscurità. Quando fa ritorno il marito semiaddormentato finge di non aver percepito la perturbazione nello spazio e la durata nel tempo e appena lei si inabissa sussurra soltanto, come un congiurato, "tais-toi". Abitiamo insieme in silenzio gli spazi liminari della menzogna. È un finale perfetto per un film guidato da Bataille e Pasolini, dalla voce ricorrente di Kim Gordon, che lavora sulle idiosincrasie e sul linguaggio filmico, a cui interessano i corpi, le zone grigie, le atmosfere piuttosto che i discorsi, tanto più quelli giusti.