Bellico, Biografico

AMERICAN SNIPER

NazioneU.S.A
Anno Produzione2014
Durata132'
Sceneggiatura
Tratto dadall'autobiografia American Sniper: The Autobiography of the Most Lethal Sniper in U.S. Military History
Fotografia

TRAMA

Christopher Scott “Chris” Kyle (1974-2013) il cecchino più letale nella storia militare degli Stati Uniti.

RECENSIONI

We're cowboys living a dream

Il mirino di Chris Kyle non perde di vista il piccolo iracheno che si sta avvicinando al plotone dei marines. Ha una granata in mano. Non c'è tempo da perdere, è tutta una questione di scelta e, prima di tutto, il vero soldato, e americano, deve essere uno sheepdog, deve proteggere la comunità. Dettaglio sul dito che sta per premere il grilletto. Il colpo parte. Stacco di montaggio. Un cervo stramazza al suolo. E' il piccolo Chris che, a caccia insieme al padre, ha ucciso la sua prima preda. Perché tutto inizia da lì, dal fondamento dell'educazione, dal retaggio culturale di una nazione e di un modo di pensare che programma il proprio sguardo sul mondo e sulla guerra. Siamo in Texas, terra di cowboy, e il futuro al-Shaitan Ramadi cresce con in mano un fucile e una Bibbia, i confini di quel quadro con cui filtrerà tutto ciò che lo circonda. E' una questione di limiti, che mettono a fuoco solo la propria porzione di realtà e necessariamente ne lasciano fuori un'altra, a partire dalla famiglia futura. Perché Kyle non può agire se non riesce a vedere, ma soprattutto non è in grado di andare oltre una prospettiva univoca, come durante il training per diventare cecchino dove è obbligato a uccidere il serpente a sonagli dietro il bersaglio sagomato per ottimizzare il suo operato, con una profetica e inquietante idea di fondo che fa emergere la natura violenta del modello di riferimento:  I'm better when it's breathing.

C''è inevitabilmente un (presunto) Male da sconfiggere, lo stesso che ha dato un'immagine di sé attraverso un altro riquadro, quello televisivo, prima con l'attentato del 1998 alle ambasciate statunitensi, poi con il fatidico 11/09. A seguito del secondo Kyle partirà per l'Iraq e troverà la sua missione: come diceva suo padre, proteggere il gregge e scacciare i lupi. Le azioni militari si susseguono e il nemico prende la sua forma, prima con Il Macellaio di Ramadi, numero due di Al Zarqawi, che semina terrore con metodi brutali, poi con il misterioso Mustafa, ex campione olimpico siriano e ora cecchino delle milizie irachene (citato solo una volta nella biografia). Il percorso dentro la complessità della guerra passerà nella connessione tra Chris e il suo doppio Mustafa per l'appunto, riflesso che boicotta, nella sua sfuggevolezza, quasi si trattasse di un'ombra, l'ossessione scopica del protagonista. E le convinzioni sul come sta guardando il mondo crollano gradualmente: con la morte di alcuni suoi compagni, si rende conto di quanto fosse importante la frase del collega Marc per indirizzare il proprio sguardo altrove (You can't shoot what you can't see). Ma che cosa è che non vede Chris? Non vede quanto il suo occhio sia solo frutto di una fittizia sovrastruttura. Ecco perché Mustafa non può essere inquadrato e può essere 'sconfitto' solo mediante un colpo fuori fuoco, un colpo in ralenti, imbevuto di leggenda (è l'unica uccisione che assume connotati immaginifici), oltre il dispositivo stesso, che sfonda la gabbia prospettica di un'intera ideologia e apre il campo alla verità della guerra, dove regna il caos, dove non c'è moralmente una logica, dove una tempesta di sabbia dissolve il campo e accecandoci, per la prima volta, ci permette di vedere. E permette anche a Chris di guardare oltre, nella sua dimensione più umana in cui la salvezza è riposta in due mani che si stringono e si sostengono, e non in un fucile e in una Bibbia che possono, finalmente, essere abbandonate nel deserto.

Non serve più uccidere, più che altro non ha più senso rappresentarlo. Chris torna a casa, lotta con il disturbo post traumatico da stress, di cui aveva già avuto segnali già al tempo dei primi rientri, e trova una sua dimensione, rifonda gli archetipi della sua infanzia. Il passato lascia spazio a un recinto con un fiabesco cavallo bianco che la figlia può ammirare (doppio dell'irrequietezza di quello nero iniziale), a una partita di caccia dove padre e figlio maggiore camminano sereni in un sano rapporto (e l'eventuale preda può rimanere confinata in un'ellissi), a una mascherata che ribalta l'iconografia del cowboy e la minaccia di una pistola diventa l'innocente scherzo per un flirt con la moglie. Ma come ci insegna Gran Torino, l'eredità comporta un sacrificio. Clint Eastwood ne è consapevole. Il suo protagonista fa parte di un immaginario (reale) che si porta dietro gli spettri di una guerra, quella invisibile, dentro ognuno di noi, che non può essere arginata dalle quattro mura di casa (in parte anche illusorie). C'è sempre qualcosa che rimane fuori e incontrollabile o che non rientra nel nostro campo visivo. Viene da pensare al fratello di Chris, in crisi e letteralmente rimosso, oscurato per la sua debolezza. L'apparizione finale dell'ex militare malato, allusione a colui che il 2 Febbraio 2013 uccise Kyle, sembra il ritorno quasi spettrale di Jeff e di una realtà, quella del reduce di guerra e dei suoi traumi, da sempre relegato ai margini da una retorica che pulsa grazie all'eroismo e nasconde tutto ciò che può inficiarla. Ma la strada che indica Eastwood, pur essendo tutt'altro che semplice, sembra voler aprire un nuovo corso.

“Quelli che rifiutano la violenza se lo possono permettere perché qualcun altro la commette per loro” (George Orwell). Ennesimo capolavoro nella filmografia eastwoodiana, evidentemente innamorata delle biografie: ne ha fatta di strada, l’autore, da Gunny e Firefox. La vita di Chris Kyle (tratta dalla sua autobiografia, opzionata da Bradley Cooper), cui i titoli di coda rendono omaggio con documenti reali, non è trattata dall’ultimo, grande regista hemingwayano, fortemente convinto del potere del singolo, come scusa per spettacolari sequenze belliche (peraltro, magistralmente messe in scena, alla ricerca del realismo) o come elegia di una figura realmente esistita, o come atto patriottico, in cui cantare le gesta di soldati che hanno combattuto un’altra guerra infame (vedi la prima vittima del Kyle cecchino: un bambino). Con poche pennellate, invece, disegna subito il protagonista come parte del cuore dell’America che ama o che si sente di difendere o che ritiene essere l’unica possibile, se allevata, con severità, nel principio della difesa dei più deboli: le chiavi di lettura dell’etica sottesa agli ultimi film di Eastwood sono meravigliosamente imprendibili, nonostante il suo cinema sia limpido come l’acqua nel raccontarsi. Kyle, fortemente convinto che il Male esista e che vada snidato, è l’archetipo del perfetto eroe, quello che non vacilla, non ha dubbi sulla giustezza di ciò che fa e che s’impegna fino in fondo a portare a termine una missione in cui crede. Eastwood non esalta la figura, tantomeno né sottolinea i lati oscuri: descrive questo carattere, senza giudizio, in atti che altri non sarebbero stati in grado di portare a termine. Ne consegue la riflessione che solo con uomini siffatti gli Stati Uniti, e qualunque altro paese che s’identifichi con i suoi ideali, si possono salvare dalle azioni di “macellai” senza onore. È il cowboy/pistolero di tutta la sua filmografia: di sani principi, spietato con i cattivi, solitario nella sua lotta (ma, qui, Eastwood esalta anche la solidarietà dei compagni). Dietro c’è tutta una filosofia sull’essere “uomo vero”, che affronta i propri demoni, che vince la più grande battaglia tornando anche “in spirito” a casa, beffa del destino finale a parte (tanto che Eastwood glissa, come se la vera chiusura fosse quella immediatamente prima).