Drammatico

AMERICAN HONEY

Titolo OriginaleAmerican Honey
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2016
Durata162'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio

TRAMA

La diciottenne Star vive con la sua famiglia in povertà assoluta. La ragazza conosce Jake e si unisce a un gruppo di giovani che vendono riviste porta a porta.

RECENSIONI

LA VITA DI STAR

La regista inglese Andrea Arnold va negli Usa e inscena il mondo delle mag crew, i giovani venditori di riviste che dormono nei motel e tentano di tutto per pochi soldi: «È come fare la carità da parte di chi acquista: non stai comprando un giornale, ma la persona che vende il giornale». Lo chiama American e Honey: già nel titolo c’è una stretta connotazione geopolitica, gli Stati Uniti, ma anche un nomignolo che è traccia di dolcezza e tenerezza. «You are a real american honey», dice Riley Keough a Sasha Lane, la ragazza che si unisce al furgone sulle strade del Midwest. Nella stessa nazione di The Florida Project di Sean Baker, quella dei poveri e marginali, dei bambini che crescono soli (anche qui, nell’incontro di Star nel prefinale); sullo stesso sfondo di Vegas di Amir Naderi, altro straniero in America, che toglie Las dalla città del divertimento per mostrarne il sobborgo disastrato.

American Honey si apre con una camera a mano che riprende il cielo, poi “scende” e inquadra una giovane che fruga nei rifiuti insieme a dei bambini: lo sguardo di Arnold è, ancora, naturalista. Lo aveva già dimostrato nel campo teoricamente meno indicato, l’adattamento di Cime Tempestose, nella sua versione anti-letteraria e installata sulla ferinità delle figure che si muovono nella natura. Sulla stessa linea è questo film, ma attenzione: non si limita al solo movimento della realtà, non è la cronaca di un vagabondare semidocumentario, bensì ha un intreccio preciso e un racconto da seguire. È la storia di una storia d’amore.

Star vede in Jake la possibilità di uscire dalla propria condizione. Letteralmente: quando lo guarda per strada, la prima volta, il contatto visivo già scocca la freccia e decreta la nascita del sentimento. È il “fatto” dell’amore, inteso come evento rilevante nel flusso indistinto della vita. Per lui scappa da un contesto degradato il cui disagio è nell’ordine delle cose, anche nei giochi («Chi arriva ultimo è un pedofilo»), e prova a partecipare a una comunità duratura, quella dei venditori estratti dai giovani borderline. Qui trova elementi di lotta di classe, nei motel fatiscenti dei poveri contro i quartieri dei ricchi in cui tentano di vendere; trova l’indigenza che porta a un lavoro inventato, il commercio di riviste in cerca di credibilità che da alcuni viene perfino accordata: certi ricchi non l’hanno mai vista, una mag crew, quindi la ritengono plausibile. Trova la Krystal di Riley Keough che è imprenditrice degli ultimi, padrona di un’economia sotterranea, in una piega povera del sistema capitalistico che si impegna a riprodurre. E Star trova, soprattutto, il Jake di Shia LaBeouf: attraente e respingente, reclutatore e sfruttatore di ragazze, in uguale misura, primo tra pari che si muove a metà tra cinico tutoraggio e slanci di sentimento. Pulsioni contraddittorie si intrecciano in modo inestricabile: come nella visita alla casa borghese, dove per la ragazza, in un misto di gelosia e proiezione, è insopportabile la vista di una festa “normale” allestita da una sua coetanea.

Ma il cuore di American Honey non è nei suoi temi, seppure complessi, bensì nel gesto cinematografico di Andrea Arnold. La regista gira per macrosequenze, come tutte le scene sul furgone, e costruisce una sostanza basata non su ciò che accade, ma sulla sensazione che questo imprime e sull’umore che evoca. Ecco allora che il punto diventa il momento e la divagazione, i balli dei ragazzi, le oscenità e le canne, insomma il quotidiano di una comune fatta di riti come la “notte del perdente” tra lo scherzo, l’orgiastico e il violento, ma anche di affetti, feste, baci. Non a caso le canzoni cantate insieme sulla strada sono tutte significative: una di queste, Dream Baby Dream di Springsteen, contiene l’indizio diegetico per dare senso al racconto e tenere acceso il fuoco di Star («We gotta keep the fire burning»). Ecco che il punto sta nella rappresentazione di Star e Jake come amanti-animali che si chiamano per ululati, e il loro sesso filmato come un contatto malickiano. Ecco che l’anima di tale naturalismo oscilla tra le riprese notturne e quelle di giorno, e così sfiora vette sublimi, per tutte la prostituzione di Star al campo petrolifero che viene illuminata solo dalla fiamma perenne del forno.

La cinepresa di Andrea Arnold trova il paragone più adeguato nel cinema di Kechiche e in particolare ne La vita di Adele. Teoricamente lontane nelle loro parabole, Star e Adele di fatto abitano lo stesso spazio cinematografico e ottengono il medesimo trattamento: una vita e un amore iscritti dentro un naturalismo. Alla domanda «Qual è il tuo sogno?», Star risponde: «Avere un posto tutto mio». E questo posto dov’è? Non nella comunità dei venditori in cui Star resta altalenante e non avrà un amore felice, non nella società che l’ha esclusa in partenza. Lo spazio cercato, forse, è nello stesso movimento, nelle riprese a spalla, nelle ombre e nelle luci. Arnold cattura un insetto sul vetro sporco, un ragno sul muro, nel finale delle lucciole che volano al buio in una chiusura visiva circolare che fa rima con l’inizio nel sole. Eccolo, il suo posto: impossibile da trovare tra gli uomini perché è già dentro l’inquadratura. Lo struggente modo di girare le offre una collocazione che non esiste di fuori: è l’immagine l’unico luogo che Star può davvero abitare.