
TRAMA
Julian è uno gigolò di professione, per clienti altolocate. È l’amante anche della moglie di un senatore che, per gelosia, fa ricadere su di lui i sospetti di omicidio alla morte di una donna.
RECENSIONI
L’eco della pellicola di Paul Schrader permane ancora oggi, dovuto alla presenza da sex symbol di Richard Gere: vestito da Armani, in decapottabile con le note di ‘Call me’ dei Blondie (le musiche sono di Giorgio Moroder), appeso per i calzari a fare le flessioni, disegnato nell’arte amatoria dai tagli di luce degli avvolgibili alle finestre, pronto al nudo frontale. Il suo fascino è accresciuto dallo stile “freddo” con cui il regista lo ritrae nella professionalità del suo mestiere, mentre il racconto crea empatia con un carattere baldanzoso e non del tutto cosciente del proprio ruolo da uomo-oggetto. Se l’argomento è scabroso, lo stile non ammicca mai, né cavalca il genere thriller/noir: Schrader preferisce rifarsi ad autori come Bernardo Bertolucci e Robert Bresson (le dissolvenze in nero, il finale alla Diario di un Ladro e tutta l’aria “mistica” e di redenzione dell’opera) e vive del portentoso contrasto fra universo fatuo-infernale ritratto (fra mercificazione del sesso e impero del denaro) e modi asettici per restituirlo, complici le tonalità algide della fotografia di Vittorio Storaro che rimarcano un substrato depresso, anch’esso in contrasto con la superficie stilizzata. Involontariamente, il film è diventato un prototipo per le direttrici estetiche, più fatue, del cinema commerciale degli anni ottanta.
