TRAMA
Frank Lucas traffica in eroina ad Harlem, Richie Roberts è il poliziotto che raccoglie prove per incastrarlo.
RECENSIONI
C’era una volta in America il Filmone. Quello, come si dice, “di ampio respiro”, che si prende il suo tempo, che segue i suoi protagonisti “in formazione”, ne fa emblemi morali quasi metafisici (il Bene, il Male), ripercorre e integra nella narrazione stralci di Storia Americana significante e chiude col retrogusto dell’Epica. Tanto per fare nomi e cognomi, penso a cose come Il Padrino, Scarface (quello bruttarello ma mitico di De Palma) o lo Scorsese di Goodfellas e Casino. Mi pare dunque evidente che sia questo, benché virato decisamente al Poliziesco, il terreno sul quale vorrebbe giocare American Gangster: minutaggio generoso, protagonisti moralmente ambigui e “interscambiabili”, il Vietnam, il gran finale scorsesiano. Tutto bene? Non esattamente. Se le intenzioni di Scott sono chiare è altrettanto chiaro che il suo è un instant classic solo, appunto, intenzionale. American Gangster è infatti un esempio di ottimo intrattenimento ma è decisamente troppo scoperto e semplicistico per aspirare a qualcosa di più. Spiega tutto per filo e per segno, poi lo ripete e infine lo ribadisce, confeziona complessità psicologiche (ed “etiche”) precotte, fa excursus storici un po’ grossolani, concede le sue quote di dovuto, disilluso American Dream, e, insomma, prende il suo spettatore per mano e lo conduce sano e salvo alla fine senza scossoni. Anche nelle singole sequenze: Frank Lucas corrompe qualcuno? Scott mostra la mazzetta che passa di mano dal corruttore al corrotto, mostra il corrotto che guarda la mazzetta e, dopo un falso indugiare del corrotto, mostra la mazzetta che finisce nella tasca interna della giacca del corrotto; il collega sfigato di Richie Roberts cade nel tunnel della droga? Un unico movimento di macchina mostrerà lo spacciatore, inquadrerà il tavolo col necessaire per farsi e chiuderà sul primo piano del poveretto alterato e tremante (per poi, oltretutto, ribadire il concetto nel dialogo successivo). E così via. Fatto sta che preso per quello che è, e non per quello che probabilmente vorrebbe essere, American Gangster funziona comunque a meraviglia e regala 157’ scolastici sì, ma serrati, dove il montaggio (soprattutto alternato e parallelo) la fa da padrone e Scott dirige il tutto con polso fermo. Quasi sempre. Perché nelle (fortunatamente poche) sequenze propriamente d’azione tornano le inquadrature troppo strette, la mdp tremolante e il montaggio semi-subliminale de Il Gladiatore o Le Crociate, con omologa indecifrabilità visiva e conseguente inefficacia spettacolare.

Scartata la sceneggiatura di Terry George che verteva più sulla vita violenta e folkloristica del protagonista, Russell Crowe ha chiesto a Steve Zaillian, partendo da un articolo di Mark Jacobson sul New York Magazine, di dare più spazio alla propria parte di poliziotto e convertire in finzione la vera storia di Frank Lucas, il più grande “spacciatore” di eroina degli anni settanta, uno che aveva in pugno anche la mafia italiana pur essendo nero. Lo sceneggiatore tende (vedi The Interpreter) a essere cronachistico, poco ispirato, prevedibile e piano. Spetta alla regia reinventarlo o renderne potenti gli ingredienti (vedi Martin Scorsese in Gangs of New York o lo stesso Scott in Hannibal): è scoperto, anche, lo schema con cui la trama si focalizza sul poliziotto corrotto di Josh Brolin, per farne il vero villain ed edulcorare, nel confronto, le cattiverie dei due protagonisti, con qualche affanno nel tenere in piedi lo scollamento fra intenzioni “nobili” del gangster e sue gesta (funziona, invece, il parallelo per cui il crimine paga con la sua ascesa e l’onestà non ha ritorni, con il disfacimento del privato del poliziotto: l’american way of life non premia le persone giuste ma Scott non dirime la questione). Di ritorno nel poliziesco dopo Black Rain, Scott è dai tempi di 1492 - La Conquista del Paradiso che non firma un’opera con così poca personalità e impatto emotivo/figurativo, per quanto recitazioni, messinscena e progressione narrativa siano impeccabili: fotografia stile Black Hawk Down, imprinting già dalla prima scena (un impietoso Denzel Washington dà fuoco ad un uomo), diluizione in due ore e mezza di una trama criminale risaputa, esposta con la stessa calma dei due protagonisti che esplodono, improvvisamente, nella violenza. Originale il ‘processo’ finale filmato come un confronto etico fra i due protagonisti. In Dvd un’extended version con maggiorazione di 18’ (brevi sequenze a parte, il finale aggiunge un dialogo dopo l’uscita dal carcere di Washington).
